All’indomani della protesta straordinaria, il silenzio del mondo dell’informazione contro le norme censorie del ddl intercettazioni, dal presidente del Consiglio era lecito attendersi una capacità di ascolto e l’apertura a una riflessione. Le sue nuove parole di attacco alla stampa si ripropongono, invece, ormai come un disco rotto, tanto è clamorosa l’ennesima inversione della verità in cui si esercita. Gli inglesi direbbero che batte il chiodo nella bara (“beats the nail in the coffin”).
La realtà è che la libertà di stampa non è mai troppa, né sufficiente, come appena pochi giorni fa hanno osservato Autorità di Garanzia e vertici istituzionali del Paese: è principio incomprimibile da leggi nazionali, recita il Trattato di Lisbona dell’Unione europea. Va perciò difesa non mutilata con limiti che determinino squilibri e la rendano insufficiente, come capita con le norme proposte dal ddl intercettazioni.
Thomas Jefferson, da statista padre fondatore della più grande democrazia del mondo, quella americana, amava ripetere che i Paesi possono sopravvivere senza i governi ma non senza i giornali e la libera stampa.
Dal presidente del Consiglio sarebbe perciò doveroso attendersi ascolto, buone pratiche e riflessione profonda sulle ragioni di una protesta tanto serena quanto severa e vasta come quella del 9 luglio.
Riflessione sì, inversione della verità no. La libertà di stampa è da sempre la discriminante principale che qualifica i sistemi democratici. Considerare l’informazione nemica è sbagliato ed è espressione di una concezione da sempre sconfitta dalla storia.
La convivenza civile ha bisogno di equilibrio e responsabilità non di essere minata da minacce e invettive dell’autorità. Il rispetto delle persone è sacro, ma le notizie di interesse pubblico debbono essere rese correttamente disponili ai cittadini, conosciute e non censurate da leggi liberticide e illiberali.