Cosa si muove dietro un diritto costituzionale che, trasformato in legge (n. 233/2012), non piace agli editori

Equo compenso giornalistico tra propaganda e mistificazione

Dario Fidora

Dario Fidora

PALERMO – Il fenomeno della precarizzazione e lo sfruttamento del lavoro autonomo sono ormai le criticità che influenzano maggiormente le dinamiche sindacali nel settore dell’informazione, all’interno delle quali costituiscono un’importante contropartita (forse la più grande) nella contrattazione con le parti datoriali.
È il caso di ricordare che la categoria dei giornalisti rappresenta l’unico caso di professione ordinistica che non si può svolgere “in proprio”. Infatti, a differenza di medici, ingegneri architetti o avvocati, il giornalista non può “aprire uno studio” e avere un rapporto diretto con l’utente finale del proprio lavoro: al contrario, anche in forma autonoma dovrà sempre lavorare per conto di un azienda editrice.
Questa singolarità spiega come, da quando il Decreto Bersani sulle liberalizzazioni ha abolito nel 2007 i tariffari di tutte le professioni, gli editori riescono con successo a imporre un cartello di condizioni che umiliano fortemente la maggior parte dei collaboratori, pagati generalmente quando va bene poche monetine ad articolo, qualche centesimo a riga.
Nel bilancio di ogni testata ormai la produzione dell’informazione viene ordinariamente ripartita tra due fattispecie di giornalisti, diverse solo per la disparità di trattamento: i subordinati per i quali si osservano le condizioni del contratto collettivo di lavoro; e, in numero sempre maggiore, i collaboratori non subordinati, freelance e autonomi precari, senza alcuna certezza di tutela e retribuzione.
Ecco perché il recente insediamento della Commissione prevista dalla legge 233/2012 sull’Equo compenso nel settore giornalistico ha innescato immediatamente un processo di aspra e risoluta opposizione da parte degli editori. Dapprima con l’aver tenuto ostruzionisticamente inchiodato per mesi il suo presidente, Giovanni Legnini, alla richiesta di vedere riconosciuti più membri in commissione di quanto ne indicasse la legge. Poi con la pretesa di utilizzare la CEC (Commissione equo compenso) non come organismo preposto all’applicazione della legge, ma come sede “politica” di dibattito per contestarne le disposizioni.
Questo atteggiamento dilatorio ha ottenuto l’effetto di indurre un cauto, diplomatico, atteggiamento da parte del sottosegretario Legnini: “Ho detto a tutti che quella legge non è perfetta, ed è molto complicata da applicare. Nessuno sa con precisione cosa sia l’equo compenso”.
Ancora: “È un diritto dei giornalisti chiedere l’equo compenso ma è fondamentale tenere in piedi le aziende editoriali e non ammazzarle”. Come se nel nostro ordinamento lo sfruttamento permanente dei lavoratori fosse un fondamentale diritto dell’azienda, in crisi o no. E rimane questa in sostanza la traduzione delle posizioni espresse dagli editori, come si ricava leggendo quelle, ad esempio, di Mediacoop e Aeranti-Corallo, nell’intento di creare una cortina fumogena che confonderebbe efficacemente chiunque non andasse poi a consultare il conciso testo della 233/2012.
È una mistificazione affermare che le disposizioni della legge agiscono per “reintrodurre il soppresso sistema tariffario” abolito con la liberalizzazione. La materia della 233 è il denaro pubblico, non il mercato privato. La legge non ha affatto il potere di imporre l’applicazione di minimi e tariffe che riguardino il lavoro autonomo. Si limita a prevedere l’obbligo della tracciabilità di tutti i rapporti di lavoro non subordinato per poter stabilire se vengano effettivamente retribuiti secondo il principio dell’equo compenso: cioè, come testualmente indicato, in coerenza con la contrattazione collettiva nazionale per il personale subordinato.
Se l’editore non rispetta l’equo compenso, attuando difformità di trattamento tra soggetti che svolgono la medesima attività giornalistica e imponendo sfruttamento e mortificazione della dignità professionale del lavoratore, non si capisce perché la collettività dovrebbe premiarlo con la concessione di qualsiasi tipo di beneficio pubblico. Chi sfrutta, mortifica e precarizza non ha diritto ad agevolazioni di alcun tipo. Sancire questo elementare principio fa diventare la legge 233 rivoluzionaria. Perché, banalmente, pagare un equo compenso compromette le consuete previsioni di bilancio dei datori di lavoro.

La soluzione

“Legge complicata da applicare? Che ammazza le aziende editrici?” Niente affatto. La soluzione di compromesso è sotto gli occhi di tutti: salomonica e intuitiva, è stata appena individuata e applicata in una trattativa dai termini analoghi.
Proprio un mese fa per la prima volta è stata siglata una contrattazione che riguarda probabilmente la più tipica tipologia di lavoro sottopagato e precario in Italia, quella degli operatori dei call-center “outbound” (che chiamano per proporre servizi).
Questi i punti principali dell’accordo:
a) Minimi retributivi rapportati al livello di inquadramento dei lavoratori dipendenti. E’ prevista una scaletta progressiva che parte dal 60% del minimo dal 1° ottobre 2013 per arrivare alla parità nel 2018;
b) Assicurata una garanzia di continuità occupazionale, stabilendo un meccanismo di prelazione attivabile dal collaboratore;
c) Viene costituito, a partire dal 1° gennaio 2014, un ente bilaterale che, a partire dal successivo 1° luglio erogherà prestazioni di sostegno in favore dei collaboratori affetti da gravi patologie, alle collaboratrici in caso di maternità e per le attività formativa.
Permane una disparità di trattamento transitoria che però riconosce il principio della perequazione finale con i minimi retributivi dei lavoratori subordinati.
Si tratta di un criterio limpidissimo che potrebbe immediatamente essere adottato anche nel contratto nazionale di lavoro giornalistico, per comprendere al suo interno le forme di flessibilità e le retribuzioni minime che riguardano il lavoro autonomo.

Il rilancio nel settore dell’informazione

Lo scorso 6 agosto è stata annunciata l’intesa tra il Governo e i rappresentanti di editoria e informazione su nuovi interventi pubblici per favorire la ripresa del settore. Ma è retorico, anzi ridicolo parlare di rilancio dell’informazione senza voler investire nella qualità del prodotto giornalistico.
Le aziende non possono pretendere che sostegno e sviluppo delle impresi editrici, attraverso provvidenze statali per giunta, comprendano l’impunità nel continuare lo sfruttamento di gran parte della loro forza lavoro. Le risorse vanno indirizzate verso l’innalzamento dei livelli occupazionali, non per cassintegrare e pre-pensionare i dipendenti delle aziende in crisi, che continuano a restare in crisi per motivi che riguardano la gestione d’impresa e non il lavoratore.
Bisogna riconoscere che esistono anche grandi responsabilità all’interno della categoria, denunciate attraverso la Carta di Firenze dell’Ordine dei giornalisti entrate in vigore nel 2013. L’editore ha un inesauribile bacino di giornalisti “sciagurati” che accettano di essere pagati tutta la loro vita professionale poche monete ad articolo. E vi è una catena di comando all’interno delle redazioni che rende possibile l’utilizzazione permanente di uno stuolo di precari e autonomi sfruttati.
L’Ordine sta affrontando il tema della propria riforma. Uno degli aspetti da affrontare riguarda la permanenza dell’iscrizione. Non solo è necessario, come è già previsto, dimostrare di svolgere attività regolarmente pagata per ottenere l’iscrizione. Occorre stabilire, come avviene in altri paesi, una soglia di reddito giornalistico minimo annuo per mantenere lo status professionale, che renda impossibile continuare a retribuire un’attività professionale con una cifra anche prossima allo zero.
Concludendo, gli editori che intendono oggi accedere a benefici pubblici sono obbligati ad applicare l’equo compenso subito. Incentivi, agevolazioni e contributi pubblici di qualsiasi natura non possono infatti essere erogati ai sensi della legge 233/2012 in caso di iniquo compenso e sperequazione tra giornalisti subordinati e non subordinati.
Per poter governare la transizione tra l’attuale insostenibile situazione di sfruttamento e il rispetto dei principi costituzionali e normativi dell’equo compenso, la cosa più ragionevole è quindi concordare una gradualità analoga alla soluzione adottata per il personale precario e sottopagato nel comparto della telecomunicazione.
La palla è ora agli editori. Per potere usufruire di contributi pubblici basterà prevedere nel testo del contratto collettivo di lavoro giornalistico (appena scaduto, quindi da rinnovare) termini ragionevoli che consentano di comprendere entro il contratto tutte le forme di lavoro autonomo, rapportandone gradualmente il livello retributivo in coerenza con quello dei lavoratori dipendenti e arrivendo nel tempo alla parità.
Chi osserverà il contratto nazionale, rispetterà l’equo compenso e potrà accedere ai benefici pubblici. Chi liberamente non vorrà farlo, non avrà diritto ad agevolazioni. Risolva quindi la propria crisi aziendale senza i soldi dei contribuenti.
Chi non vuole il problema, adotti la soluzione di rispettare la legge.
Dario Fidora
coordinatore Commissione lavoro autonomo regionale Assostampa Sicilia
componente Commissione  nazionale lavoro autonomo Fnsi

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