
Diego Minuti (Ansa)
Diego Minuti
TUNISI (Tunisia) – Nei giorni dell’emergenza, quando l’attacco dei terroristi al sito di “In Amenas” era alle prime battute e ancora non era scattata la reazione algerina, gli jihadisti hanno conquistato la ribalta mediatica, con uno stillicidio di dichiarazioni, appelli, minacce, spezzoni di notizie: tutto dosato alle perfezione per fare aumentare la tensione all’inverosimile.
Una tattica che non avrebbe avuto successo se, anche in questo caso, non si fosse confermato quel che sanno tutti. E cioé che gli estremisti islamici hanno canali preferenziali di comunicazione, creati e coltivati da tempo, attraverso i quali filtrare le informazioni più funzionali alle loro iniziative.
Nella crisi algerina, per quattro giorni a tenere banco con informazioni spesso assurte al rango di scoop sono state le agenzie di stampa mauritane Ani – ufficiale – e Sahara media – privata – che hanno imperversato con una copertura che appare riduttivo definire accurata. Scatenando la reazione dei media algerini, che le hanno ritenute un megafono della jihad e basta.
Cioé: telefonate tra le redazioni e coloro che, sul campo, avevano già ucciso e ancora tenevano in ostaggio decine di persone; lunghe conversazioni poi riversate nei servizi. Cose che hanno dettato – si accusa – i tempi della violenza.
La reazione dei media algerini, ma anche di quelli di altri Paesi coinvolti loro malgrado nell’assalto, è stata immediata contestando un modo di fare informazione che può essere interpretato da alcuni come vicino al favoreggiamento, se non addirittura alla connivenza.
Forse il culmine è stato raggiunto con la messa in rete, a emergenza finita, del filmato con cui il capo della brigata terroristica, l’emiro Moctar Belmoctar, ha scandito tempi e modi dell’impresa, con quel che è apparso, più che una dichiarazione, il “manifesto” degli jihadisti più duri dell’ultima generazione, intriso di minacce dirette e inequivocabili.
Sicuramente un colpo per Sahara media (anche se l’agenzia ha solo ricevuto il video), ma che ha creato un moto di rabbia in Algeria, perché le parole di Belmoctar, lette a massacri avvenuti, sono suonate come un tragico preavviso della sorte già riservata agli ostaggi.
Di fronte alle accuse di parte algerina è giunta la risposta di Mahmoud Ould Abou El Maâli, fondatore dell’Ani: non abbiamo oltrepassato alcuna “linea rossa”.
Dare il contenuto dei colloqui con i rapitori era solo informazione. Ma è questo il punto su cui ci si interroga ora: diffondere le dichiarazioni (e le minacce) dei rapitori può avere condizionato, in peggio, l’evolversi della vicenda?
Sul come l’Ani sia entrata in contatto con i rapitori, la risposta di El Mali sembra celare appena un pizzico di soddisfazione: abbiamo giornalisti specializzati in questioni della sicurezza. Come a dire: provateci anche voi. (Ansa)
Una tattica che non avrebbe avuto successo se, anche in questo caso, non si fosse confermato quel che sanno tutti. E cioé che gli estremisti islamici hanno canali preferenziali di comunicazione, creati e coltivati da tempo, attraverso i quali filtrare le informazioni più funzionali alle loro iniziative.
Nella crisi algerina, per quattro giorni a tenere banco con informazioni spesso assurte al rango di scoop sono state le agenzie di stampa mauritane Ani – ufficiale – e Sahara media – privata – che hanno imperversato con una copertura che appare riduttivo definire accurata. Scatenando la reazione dei media algerini, che le hanno ritenute un megafono della jihad e basta.
Cioé: telefonate tra le redazioni e coloro che, sul campo, avevano già ucciso e ancora tenevano in ostaggio decine di persone; lunghe conversazioni poi riversate nei servizi. Cose che hanno dettato – si accusa – i tempi della violenza.
La reazione dei media algerini, ma anche di quelli di altri Paesi coinvolti loro malgrado nell’assalto, è stata immediata contestando un modo di fare informazione che può essere interpretato da alcuni come vicino al favoreggiamento, se non addirittura alla connivenza.
Forse il culmine è stato raggiunto con la messa in rete, a emergenza finita, del filmato con cui il capo della brigata terroristica, l’emiro Moctar Belmoctar, ha scandito tempi e modi dell’impresa, con quel che è apparso, più che una dichiarazione, il “manifesto” degli jihadisti più duri dell’ultima generazione, intriso di minacce dirette e inequivocabili.
Sicuramente un colpo per Sahara media (anche se l’agenzia ha solo ricevuto il video), ma che ha creato un moto di rabbia in Algeria, perché le parole di Belmoctar, lette a massacri avvenuti, sono suonate come un tragico preavviso della sorte già riservata agli ostaggi.
Di fronte alle accuse di parte algerina è giunta la risposta di Mahmoud Ould Abou El Maâli, fondatore dell’Ani: non abbiamo oltrepassato alcuna “linea rossa”.
Dare il contenuto dei colloqui con i rapitori era solo informazione. Ma è questo il punto su cui ci si interroga ora: diffondere le dichiarazioni (e le minacce) dei rapitori può avere condizionato, in peggio, l’evolversi della vicenda?
Sul come l’Ani sia entrata in contatto con i rapitori, la risposta di El Mali sembra celare appena un pizzico di soddisfazione: abbiamo giornalisti specializzati in questioni della sicurezza. Come a dire: provateci anche voi. (Ansa)