Trentadue anni dopo l’omicidio, il misterioso caso della morte del direttore di “Op” potrebbe essere riaperto

Il Molise intitola una piazza a Mino Pecorelli

Il cadavere di Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 a Roma

La rivista Op

Carmine (Mino) Pecorelli

SESSANO DEL MOLISE (Isernia) – Per la prima volta, a 32 anni dalla morte, una piazza è stata intitolata a Mino Pecorelli, direttore del settimanale “Op” ucciso in circostanze ancora oggi misteriose nel 1979 a Roma: si tratta della piazza situata davanti all’abitazione natale del cronista a Sessano del Molise. Nel corso della cerimonia dell’intitolazione, avvenuta oggi poco dopo mezzogiorno, ha preso la parola la sorella del giornalista ucciso, Rosita, che, commossa, ha ringraziato quanti si sono battuti negli ultimi anni affinché si concretizzasse questa iniziativa in memoria di suo fratello. Il caso dell’omicidio di Mino Pecorelli, comunque, potrebbe presto essere riaperto grazie ad elementi nuovi. Lo ha annunciato l’avvocato della famiglia Pecorelli, Alfredo Galasso. Come è noto i processi di Perugia si sono conclusi con le assoluzioni di tutti gli imputati, compreso il senatore a vita Giulio Andreotti e il boss mafioso Gaetano Badalamenti.
“Certo – spiega l’avvocato – non è detto che non si possa ulteriormente cercare in una direzione che è l’unica plausibile e cioè quella di una matrice politico-mafiosa”. Quindi prosegue: “Ci sono persone che forse possono riferire qualcosa di nuovo, che sanno qualcosa in pià. Ogni tanto scopriamo un collaboratore di giustizia che ci racconta qualcosa che non gli era mai stato richiesto o che si è ricordato solo ora. Spero che questo possa accadere e questa prospettiva non mi abbandona, sorretto come sono anche dalla grande volontà della sorella di Mino”.
Galasso, parlando degli anni successivi al delitto, sostiene, infine, che ci siano stati interventi diretti a screditare la figura di Pecorelli. “E’ il caso di parlare di una serie di apparati che si sono mossi – afferma – compresi, purtroppo, gli apparati mediatici, subito dopo l’omicidio di Pecorelli, per coprire il suo cadavere con una coltre di fango.
Pecorelli andava immediatamente dimenticato perché era un ricattatore e in questo modo naturalmente le ragioni per le quali fu ucciso, le rivelazioni che si temeva facesse in questo suo giornale di inchiesta, che oggi sarebbe un grande giornale e all’epoca era tacciato di essere la sede di scandali”.
“Pensiamo allora – continua – che cosa sono i gossip oggi e ci rendiamo conto che Pecorelli aveva la dignità professionale di non mettere in mezzo i gossip che forse all’epoca c’erano anche, ma invece trattava notizie che riguardavano l’interesse collettivo, il bene comune, la sicurezza del paese, l’onestà e la linearità dei suoi giovernanti e tutto ciò, naturalmente, ad un certo punto ha determinato una reazione negativa”. (Ansa).

CHI ERA MINO PECORELLI

Carmine Pecorelli (Sessano del Molise, 14 giugno 1928 – Roma, 20 marzo 1979) è stato un giornalista, avvocato e scrittore italiano, meglio conosciuto come Mino Pecorelli, che nell’ambito del giornalismo si occupò d’indagine politica e sociale. Venne assassinato a Roma in circostanze ancora non del tutto chiarite. Fondò l’agenzia di stampa Osservatorio Politico (Op) che divenne poi anche una rivista. Pecorelli era affiliato alla loggia massonica segreta P2. Dopo la laurea in Giurisprudenza, iniziò la carriera di avvocato, diventò un esperto di diritto fallimentare e fu nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, iniziando così ad entrare nel giornalismo. Op era inizialmente una agenzia di stampa (registrata al Tribunale di Roma nel 1968); Pecorelli, proveniente dall’esperienza del periodico “Nuovo Mondo d’Oggi” – rivista vicina ad ambienti di potere, caratterizzata dalla ricerca e pubblicazione di scoop scandalistici – chiese ai propri referenti all’interno dei Servizi Segreti la possibilità ed il denaro necessario per aprire una attività paragiornalistica. Op trattava di politica, in particolare di scandali e retroscena, e comunque di chi in qualche modo aveva qualche potere in Italia, fornendo notizie in anteprima che Pecorelli stesso raccoglieva grazie alle sue numerosissime aderenze in molti ambienti dello Stato, ed accompagnandovi analisi dello stesso.
La testata (il cui nome coincideva con l’acronimo in uso per “ordine pubblico”, locuzione di molte accezioni negli ambienti frequentati) divenne presto molto nota ed ebbe anche una certa centralità in ambiti politici, militari e di intelligence, costituendo una sorta di elitaria fonte di comunicazione o di informazione specializzata: politici, dirigenti statali, militari, agenti segreti (e forse anche criminali d’alto bordo) la leggevano con frenetica costanza per scorgervi acute indicazioni su cosa era successo o sagaci previsioni su cosa stava per accadere.
Di diffusione settoriale, la velina settimanale di Op era destinata ad una selezionata lista di abbonati, che comprendeva le alte sfere militari, politiche ed industriali del Paese. Nel marzo del 1978 Pecorelli annunciò la decisione piuttosto sorprendente di trasformare l’agenzia in un periodico regolarmente in vendita nelle edicole. L’operazione stupì perché il Pecorelli stesso non disponeva del budget richiesto da una simile avventura editoriale – difatti lo stesso giornalista chiese spesso a personaggi di spicco delle sovvenzioni pubblicitarie per la sua rivista – e soprattutto per lo stupefacente e sospetto tempismo tra il primo numero del settimanale “Op” e la strage di via Mario Fani a Roma con cui iniziò il periodo dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Il periodico si occupò a più riprese del rapimento e dell’omicidio dello statista democristiano, arrivando a fare rivelazioni in anteprima sconcertanti – ad esempio sulla falsità del “Comunicato nr. 7”, quello del Lago della Duchessa; altri bersagli privilegiati di Pecorelli furono Giulio Andreotti ed in particolare la conventicola di politici, industriali e faccendieri che alimentava la sua corrente: esemplare l’episodio di una cena in cui il braccio destro di Andreotti, l’on. Franco Evangelisti cercò di convincere Pecorelli, con un assegno di lire 300 milioni a non pubblicare un reportage sugli assegni milionari che il bancarottiere Nino Rovelli aveva girato all’uomo forte della Dc. Altri scandali rimarcabili regolarmente pubblicati furono quello dell’Italpetroli e la presunta presenza di una loggia massonica in Vaticano (scoop pubblicato all’indomani della elezione di Albino Luciani al soglio pontificio).
In sede giudiziale si è ampiamente dibattuto se Pecorelli fosse un ricattatore professionista, visto il tenore e gli argomenti della quasi totalità delle sue inchieste, ma tale tesi è stata bocciata dopo l’esame patrimoniale eseguito dopo il suo assassinio: il giornalista risultava perennemente indebitato con tipografie e distributori del proprio giornale ed il suo spartano tenore di vita non poteva certo essere paragonato con quello di chi stava ricattando. La morte del discusso personaggio segnò anche la fine della breve vita di “Op”: l’agenzia prima e la rivista poi erano alimentate esclusivamente dalle notizie che Pecorelli raccoglieva in prima persona dalle sue fonti nel mondo politico, nella P2 ed all’interno dell’Arma dei Carabinieri e dei Servizi.
Pecorelli aveva una singolare predisposizione, quasi un dono, a scorgere immediatamente fra le righe di uno scarno comunicato o nella banalità di una semplice frase indizi rivelatori di oscuri collegamenti, occulte manovre, recondite intenzioni. Dotato di spiccato senso storico e grandissimo conoscitore della realtà politica, militare, economica e criminale italiana, riusciva a tradurre gli apparentemente innocui avvenimenti in corso in deduzioni che registravano con scabra fedeltà chi faceva cosa in Italia. Va detto che il corpus delle sue edizioni è stato oggetto di una mole impressionante di smentite (soprattutto dopo la sua morte), ma stranamente pochissime accuse hanno resistito in sede giudiziaria di fronte a querele o ad altri procedimenti.
Si è discusso se abbia, nelle sue analisi, inviato talvolta messaggi in codice. La particolarità del lavoro che svolse, sia per argomenti trattati che per modo di trattarne, fece sì che molte delle sue indicazioni potessero essere sinteticamente definite da altri colleghi “profezie”, come ad esempio le note righe sul “generale Amen”, nome dietro al quale molti hanno letto la figura del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: sarebbe lui che – secondo la narrazione del Pecorelli – durante il sequestro Moro avrebbe informato il ministro dell’interno Francesco Cossiga dell’ubicazione del covo in cui era detenuto (ma, sempre stando a questa ipotesi, Cossiga non avrebbe “potuto” far nulla poiché obbligato verso qualcuno o qualcosa). Il generale Amen, sostenne Pecorelli nel 1978, senza mezzi termini, sarebbe stato ucciso; per il movente, infilò fra le righe un’allusione alle lettere che Moro scrisse durante la sua prigionia.
Dopo l’omicidio dello statista, Pecorelli aveva pubblicato sulla sua rivista, nel frattempo divenuta settimanale, alcuni documenti inediti sul sequestro, come tre lettere inviate alla famiglia. La ricerca lo aveva portato, ormai senza forse, a scoprire alcune verità scottanti, tanto che profetizzò anche il suo stesso assassinio.
La sera del 20 marzo 1979 fu ucciso nel quartiere Prati di Roma, poco lontano dalla redazione del suo giornale, con quattro colpi di una pistola calibro 7,65. I proiettili trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato (anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell’arsenale della Banda della Magliana nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità.
L’indagine aperta all’indomani del delitto coinvolse nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana), Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, tutti poi prosciolti il 15 novembre 1991.
Nei mesi a seguire le ipotesi sul mandante e sul movente nacquero a grappoli: da Gelli e la mafia, fino ad arrivare ai petrolieri ed ai falsari (Antonio Chichiarelli appartenente pure lui alla Banda della Magliana) di De Chirico. La supposta relazione tra l’omicidio Moro e quello di Pecorelli, teoria che attualmente gode del maggior credito, venne fuori solo più tardi.
Il 6 aprile 1993, il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, parlò per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia e raccontò, tra le altre cose, di aver saputo dal boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreotti.
Si aprì un fascicolo sul caso, ed in questo faldone vennero nel tempo ad accalcarsi, grazie alle deposizioni di alcuni pentiti della banda della Magliana, Andreotti, l’allora pm Claudio Vitalone, Badalamenti, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera, Carminati e diversi altri personaggi di quella stagione della storia nazionale.
Il 24 settembre 1999 fu emanata la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati “per non avere commesso il fatto”. Il 17 novembre 2002, in appello, Andreotti e Badalamenti furono condannati a 24 anni di reclusione per essere stati i mandanti dell’omicidio. La Corte d’appello confermò, invece, l’assoluzione per i presunti esecutori materiali del delitto. Il 30 ottobre 2003 la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la condanna a 24 anni inflitta al senatore a vita Giulio Andreotti e a Badalamenti dalla Corte d’Assise d’appello di Perugia. (Wikipedia).

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