Nell’intervista rilasciata a Filippo Praticò nel 2007, la storia, le passioni, le delusioni e le speranze

Franco Bruno, un inviato Rai molto speciale

Filippo Praticò

REGGIO CALABRIA – E’ un inviato speciale della Rai. Da Reggio, particolare osservatorio di fatti di cronaca, costume e società di rilevanza italiana e internazionale, e da molti punti della Calabria, ci racconta tante vicende quotidianamente. Lo fa con un linguaggio semplice, andando al sodo dell’avvenimento, senza fronzoli, attento ai dettagli. Franco Bruno, lui che intervista per mestiere, è stato invece intervistato.
Ha raccontato quando negli anni Ottanta, sulla scia del clamore del ritrovamento dei Bronzi di Riace, realizzò uno scoop giornalistico. Indagando sulla scomparsa di spade e scudi che forse ornavano le due statue di guerrieri ellenici, intervistò infatti, alcuni personaggi in possesso di foto dei reperti trafugati e venduti ad un museo americano. Quello scoop è tornato attuale oggi con il rilancio di nuove polemiche sui retroscena legati al ritrovamento in mare delle due statue bronzee, perché nuovi ed interessanti elementi indicati da un professore-investigatore hanno convinto carabinieri e magistratura a riaprire le indagini.

Franco Bruno

Sui fatti di ogni genere Franco Bruno è sempre in prima linea. E’ un “vizio” avuto fin da adolescente, quando liceale al Classico “Campanella” di Reggio Calabria cominciò a redigere articoli. Siamo nel 1967. Significativo il titolo del giornale scolastico: lo “Spione”. Il redattore investiga alla ricerca della verità, segue una pista, ne sviscera ogni particolare, poi relaziona, non ai superiori, bensì ai lettori, gli unici destinatari della notizia.
Scrive articoli e studia. Frequenta l’università e si laurea in Scienze Politiche all’ateneo di Messina. Da giornalista-studente segue gli anni della Rivolta di Reggio per il capoluogo. Nel suo lavoro trova un maestro particolare, quel Gigi Malafarina presso la cui scuola di cronista ci siamo formati in tanti. Malafarina ha sempre avuto cura e attenzione verso i giovani. A Franco Bruno e a Santo Strati, altro cronista di razza adesso editore a Roma della multimedialità, propone un importante “lavoro”.
Nel 1972, finanziati da un altro giornalista-editore di eccezione, Giuseppe Reale, per lunghi anni deputato nazionale ed europeo, alla guida delle Edizioni “Parallelo 38”, esce in tre volumi  “Buio a Reggio”. E’ un racconto di quelle giornate rivoluzionarie, fatto da un giornalista e da due universitari con “amorosa pazienza, con ricerca costante, di documenti e testimonianze, dichiarazioni e corrispondenze, una messe di elementi che è parsa debba poter giovare alla causa che oggi più interessa: il ristabilimento della verità”. Così scriveva Giuseppe Reale nella prefazione di un libro caposaldo nella storia di Reggio Calabria.
Quella esperienza fortifica Franco Bruno. Comincia a collaborare da Reggio con diversi quotidiani nazionali, tra i quali  “Il Messaggero” e “Il Giorno”. Nel 1974 giunge la prima assunzione, al quotidiano “Il Giornale di Calabria” diretto da Piero Ardenti, con caporedattore Paolo Guzzanti, oggi parlamentare azzurro, una testata fucina di tanti giornalisti di razza.
L’anno dopo, alla ricerca di nuovi spazi, lasciata la Calabria, lo troviamo nelle redazioni di Pesaro prima e di Ancona poi, del “Corriere Adriatico” diretto Dario Beni e caporedattore quel Tonino Carino poi divenuto uno dei più noti volti di Rai Sport. Editore è Franco Sensi fino a qualche anno fa patron della Roma Calcio.  “E’ il periodo più bello di giornalista, ben pagato”, ricorda Franco Bruno. Ma le sirene di Reggio sono sempre ammaliatrici.
Nel 1975, Franco Cipriani, grande giornalista reggino e corrispondente Rai per eccellenza dalla Calabria, e Enzo de Luca, altro giornalista reggino tra i più noti,  lo convincono a ritornare in riva allo Stretto. L’avventura è interessante. Muove i primi passi una televisione locale, entra nelle case via cavo. E’ Telereggio, emittente privata sperimentale. Si era allora, in pieno pionierismo tv. Dal cavo il passo alle trasmissioni via etere è breve.
In Italia in quegli anni operano solo due tv: Telereggio e Telebiella di Enzo Tortora. Con questa esperienza Bruno perfeziona il proprio stile giornalistico, narrativo e investigativo sui fatti della società. Scrive il suo secondo libro di storia regionale. E’ del 1978 il volume “Calabria e Calabresi”, un’antologia che offre uno spaccato della società calabrese dall’inizio del 1900.
Lascia Reggio e va a lavorare all’Espresso di Roma. Ma vi resta poco perché l’inizio delle trasmissioni della terza rete Rai, lo portano tra Roma e Cosenza dove diventa il giornalista Rai che conosciamo. Che conduce inchieste sul traffico dei rifiuti tossici, sulla tangentopoli e mafiopoli reggina, sempre con sapiente scelta degli aspetti originali, la notizia che gli altri non trovano. Numerose le interviste ai personaggi più importanti del mondo della politica, dello sport, dello spettacolo, della cronaca, della religione i cardinali Salvatore Pappalardo di Palermo, e Carlo Maria Martini di Milano, e delle istituzioni italiane ed estere, i presidenti della Repubblica Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi.

– 1967-2007: in questo arco di tempo quante trasformazioni ha registrato il giornalismo calabrese? Quanto ha inciso nel cambiamento della nostra regione, oppure è stato un passo indietro o avanti alla crescita sociale ed economica della nostra società?

“Il giornalismo è cambiato profondamente intanto per il numero delle testate diffuse. Quando ho iniziato aveva da poco chiuso la “Tribuna del Mezzogiorno” e aveva aperto redazioni in Calabria “Gazzetta del Sud”. Avevo fatto carte false per entrare alla “Gazzetta”, ma non ci sono riuscito. Ora c’è un ampio panorama di testate che hanno consentito di allargare l’orizzonte informativo, hanno offerto l’opportunità a tanti giovani di fare questo lavoro. Poi le tv e le radio. Da informazione monopolio di unico quotidiano, c’è pluralismo e molta concorrenza. Secondo me ha inciso poco nel cambiamento della società perché intanto le fonti di finanziamento dei giornali e delle TV, per quanto riguarda vendite e diffusioni, sono ancora limitate. Si legge poco in Calabria. Il mercato pubblicitario in un’economia povera è quello che è,  per cui le risorse vengono dalle istituzioni, quindi bene o male l’informazione in Calabria risente di questa dipendenza, forma un collateralismo con chi gestisce il potere locale”.

– Rispetto agli inizi della tua professione,  come si presenta oggi la Calabria?

“Uguale. I problemi che c’erano 40 o 30 anni fa sono rimasti tutti. Non c’è coraggio di affrontarli radicalmente. La società è pressoché immobile. Non c’è uno scambio, i giovani non riescono ad inserirsi nei cicli produttivi e nei centri decisionali. E l’alternativa è andare fuori della regione. Prima si esportavano le braccia, ora i cervelli”.

– L’ultimo tuo volume “La Calabria di Wojtyla”, è nato durante un incontro con gli studenti di una scuola media, scoprendo che ignoravano le due visite del papa nella nostra regione. Furono grandi eventi, in particolare il primo viaggio nel 1974, tre giorni di visite e di discorsi che compongono una sorta di enciclica sociale sul Mezzogiorno e sulla Calabria in particolare. Tu batti il testo della “memoria storica”, una qualità assente tra i calabresi, soprattutto tra gli intellettuali e i politici. Cosa vuoi significare?

“È fondamentale. La cosa grave è che i primi a dimenticare sono i politici che per la maggior parte sono gli stessi da molti anni. Dimenticano quanto hanno vissuto in prima persona. Non riescono a tradurre in fatti positivi gli errori del passato, e il fatto di rimanere per tanto tempo sulla scena, serve loro per perfezionare i modi per mantenere il sistema clientelare. Sono sempre più raffinati in questo,  purtroppo”.

– Molti giovani si accostano alla professione di giornalista con tanta speranza. Per formare un giornalista ci sono tante strade, i corsi dell’Ordine, l’università, la pratica in redazione. Tu che ti sei messo alla prova fin da liceale, quali consigli dai alle nuove generazioni?

“Le radio e le tv private hanno spostato l’attenzione sul protagonismo e sull’apparire. Si è formata un’idea sbagliata di fare giornalismo tanto che appare come una «malattia sociale». Basta entrare in una redazione e il gioco è fatto. Manca invece in tanti la curiosità, capire cosa succede, perché. E’ meglio allora fare un altro mestiere. La cosa grave è purtroppo l’Università: ha grande responsabilità, sta speculando sulla voglia di tanti giovani di comunicare. Si moltiplicano le facoltà, si creano aspettative, ma non c’è reale formazione professionale. La strada migliore resta quella più difficile: andare sul campo, vivere in una redazione ricoprendo tutti i ruoli, e lasciar perdere tante radio e televisioni. Chi ha talento lo si capisce subito, si afferma. Lo decretano ancora lettori e  telespettatori”.

– Una domanda spigolosa su giornalismo e politica. Per un certo periodo di tempo sei stato anche leader di un partito regionale. Però, è sembrato strano che, invece di diventare anche tu un professionista della politica, abbia chiuso con questa esperienza. Cosa ti ha convinto ad abbandonare questa strada?

“C’era un progetto alla base di quell’impegno che condividevo con tanta gente, che cinque anni fa ci ha portati a dire che questo sistema elettorale bipolare non poteva funzionare e andava modificato. Quando a livello regionale si è deciso di abbandonare questo percorso, non mi è sembrato logico scegliere uno dei due schieramenti di cui contesto ancora l’efficacia. Poi c’è lo specifico calabrese dove io operavo, dove la gente guarda alla politica come un momento di soddisfacimento di interessi personali o particolari, non come momento di sviluppo, di crescita della società nel suo complesso. Allora, il giornalismo che interroga la politica, che dà voce e sostiene tante iniziative di volontariato che meritano di essere aiutate, la cui azione in concreto può contribuire al cambiamento effettivo della politica, della società; forma persone, soprattutto giovani nuovi, più generosi e disponibili, fratelli dei meno fortunati, portatori d’amore”.

Filippo Praticò (In cammino, aprile 2007)

Un commento:

  1. Ciao Franco. Un semplice saluto per un caro amico! Sarai sempre nei nostri ricordi.

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