Ankara ha superato persino Cina e Iran, storici e assidui regimi persecutori dell’informazione

Turchia: almeno 57 giornalisti in carcere

Manifestazione per la liberazione dei giornalisti turchi

VIENNA (Austria) – La Turchia è oggi il paese al mondo con il più alto numero di giornalisti in carcere. Ankara ha superato persino Cina e Iran, storici e assidui regimi persecutori dell’informazione. A rivelarlo è un rapporto dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa con sede a Vienna.
Secondo il rapporto redatto da Dunja Mijatovic, sarebbero “almeno 57” attualmente i giornalisti in carcere in Turchia. Di fronte a questi dati, il mensile americano Commentary dice che ad Ankara oggi vige il “reato di pensiero”. I dati sono ancora più gravi perché la Turchia è un membro della Nato, ambisce a entrare in Europa ed è considerata un modello di democrazia nel Medio Oriente.
Il 9 marzo, migliaia di giornalisti, assieme ad avvocati e politici dell’opposizione kemalista, si sono radunati a Istanbul per protestare contro il clima repressivo. Una settimana dopo, la manifestazione è stata replicata ad Ankara. Le incarcerazioni sono iniziate nel 2005, dopo la promulgazione della legge 301 da parte del governo islamico di Erdogan.
Nata per avvicinare la Turchia all’ingresso nell’Unione Europea, la legge è diventata uno strumento di repressione. Fra gli arrestati spicca Nedim Sener, collaboratore dei quotidiani Milliyet e Posta, ma soprattutto autore di un libro sull’omicidio di Hrant Dink, un’indagine sulle responsabilità della polizia nell’omicidio del giornalista e per il quale Sener ha ricevuto dall’International Press Institate il titolo di “World Press Freedom Hero”.
In carcere c’è anche Ahmet Sik, docente alla Università Bilgi di Istanbul e giornalista investigativo, legato a un libro sull’influenza islamista nelle forze di polizia. L’autore è in carcere e il libro sequestrato. Quasi tutti i giornalisti incriminati sono trattenuti nel carcere di Silivri, vicino Istanbul. Tra di loro, da quasi due anni, c’è Mustafa Balbay del quotidiano Cumhuriyet: “Il governo ha arrestato tutti quelli che si oppongono al potere islamico”.
La situazione è talmente preoccupante che anche il celebre pianista Fazil Say ha dichiarato che “in Turchia vige un fascismo pesante. La gente ha paura. Le persone su Facebook si autocensurano”. Un altro caso riguarda Ismail Saymaz del quotidiano Radikal, nei cui confronti il procuratore Osman Sanai ha appena avviato una procedura giudiziaria.
Il reporter in un suo libro si era riferito proprio al procuratore Sanai come “vicino al jihad”. Sarebbero un migliaio i procedimenti giudiziari attualmente a carico di giornalisti. Quando nel 2005 il premier Recep Tayyip Erdogan riformò il codice penale turco, pochi compresero le conseguenze delle misure draconiane contenute nel testo giuridico. I consensi degli ambienti europeisti, favorevoli all’ingresso di Ankara nell’Unione europea, si concentrarono sulle positive riforme che inasprirono le pene per le violazioni di diritti umani.
Ma accanto ai consensi vi furono le critiche degli ambienti laici che sostennero che il premier Erdogan avesse volutamente introdotto per la prima volta nella legislazione penale turca (che dal 1926 era basata sul codice italiano Zanardelli in vigore per decenni fino alla successiva riforma Rocco in epoca fascista) la possibilità del carcere per i giornalisti.
Fra le accuse di Erdogan ai giornalisti che hanno osato “offuscare l’immagine della Turchia” c’è stata la diffusione della violenta repressione della manifestazione delle donne laiche avvenuta il 6 marzo del 2005. Poi il processo contro il giornalista Fikret Otyam. Il celebre pittore, ultraottantenne, aveva pubblicato un articolo sarcastico che si beffava così del premier turco sull’adulterio: “Erdogan ha abbassato con successo il dibattito al livello del cavallo dei pantaloni”. (Il Foglio).

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