Nella motivazione della sentenza (2.199 pagine) i giudici non risparmiano gli ambiti giudiziario e parlamentare

Omicidio De Mauro, “omertoso silenzio o servile ignavia”

Mauro De Mauro

Etrio Fidora

PALERMO – Uno dei capitoli della sentenza sull’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, le cui motivazioni sono state depositate ieri e riconducono il delitto a uno scoop sul caso Mattei, si occupa dei depistaggi che avrebbero segnato l’inchiesta.
I giudici, nel dispositivo che ha chiuso il processo contro Totò Riina, unico imputato e assolto, avevano evidenziato alcune posizioni di testimoni apparsi falsi e ora, nella motivazione, depositata ieri e lunga 2.199 pagine, parlano di “incongruenze, contraddizioni e palesi reticenze emerse nel corso delle deposizioni”, a causa delle quali “va disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Palermo, per quanto di competenza, nei confronti di Bruno Contrada, Pietro Zullino, Paolo Pietroni e Giuseppe Lupis”.
Il capitolo dei depistaggi dell’indagine, evidenziati dai familiari, che erano costituiti parte civile – così come “Ordine regionale dei giornalisti – con l’assistenza dell’avvocato Francesco Crescimanno, avrebbe riguardato il fatto che le indagini furono indirizzate verso piste palesemente sbagliate, come quella che avrebbe voluto De Mauro vittima di boss che gestivano il traffico degli stupefacenti.
Dopo avere esaminato le testimonianze ritenute false, tra le quali quella dell’ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada, che sta finendo di scontare in detenzione domiciliare una condanna a 10 anni per concorso in associazione mafiosa, la Corte d’assise palermitana, presieduta da Giancarlo Trizzino, a latere l’estensore Angelo Pellino, osserva che “il depistaggio vi fu, ma Contrada sembra voler concedere ai carabinieri il beneficio della buona fede, nel senso che essi sarebbero stati spinti a sostenere una tesi investigativa palesemente inconsistente non già dall’intento di favorire” i cugini esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo “o altri, bensì per risolvere rapidamente il caso della scomparsa di De Mauro; e, soprattutto, per poter ancorare ad un episodio delittuoso specifico e di innegabile gravità un’indagine che, al pari di tutte quelle che ruotavano intorno a generiche ipotesi accusatorie di associazione a delinquere, rischiava altrimenti di finire nel nulla”.
Due i nomi di valenti investigatori antimafia, poi entrambi uccisi da Cosa nostra, il cui ruolo viene analizzato e criticato dalla sentenza. Uno è “l’allora colonnello Dalla Chiesa”, al quale il collegio concede una giustificazione: “Pur prodigandosi in una sorta di difesa d’ufficio della scelta operata a suo tempo dall’Arma, nel senso di privilegiare la pista della droga”, il prefetto assassinato a Palermo il 3 settembre 1982 ne aveva riconosciuto “l’inconsistenza, sottolineando però che, se si fosse dato carico agli esponenti mafiosi inquisiti e poi arrestati per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti (33 dei quali riportarono condanna in esito al processo noto come dei 114) di un delitto molto più grave come il sequestro De Mauro, forse si sarebbe inferto un colpo mortale all’organizzazione mafiosa, decapitandone i vertici”.
Dalla Chiesa dunque, più che depistare consapevolmente, avrebbe voluto evitare “altri omicidi eccellenti, come quelli di Boris Giuliano e del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che erano entrambi impegnati attivamente in indagini sul traffico di stupefacenti quando vennero assassinati”.
Il fine del generale, dunque, era forzare un po’ la mano per neutralizzare i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano e “l’efferata pericolosità dell’organizzazione mafiosa, grazie all’arresto dei suoi capi e al deterrente dell’imputazione per un gravissimo delitto, come quello di De Mauro”.
Discorso diverso, invece, per l’ex capitano, poi divenuto colonnello, Giuseppe Russo, ucciso il 20 agosto del 1977 a Ficuzza (Palermo) assieme all’amico insegnante Filippo Costa. Su di lui ci sarebbero numerosi elementi secondo cui l’ufficiale avrebbe intrattenuto rapporti con i cugini Salvo.
I giudici citano, fra l’altro, la testimonianza di Etrio Fidora, ex direttore de “L’Ora”, il giornale di De Mauro: “Russo, quando è morto, lavorava per i Salvo, era un ex ufficiale dei carabinieri in pensione e i Salvo gli avevano proposto di occuparsi dei loro servizi di vigilanza. Cosa un po’ strana, diciamo la verità, ma non è mai stata chiarita”.
Non si sa se Russo avesse accettato o meno l’offerta: “Si sa – aveva proseguito Fidora – che gli avevano fatto questa offerta dopo che era andato in pensione da carabiniere”. “In ogni caso – sintetizzano i giudici – tra depistaggi più o meno consapevoli, influenti protezioni di cui i Salvo godevano in ambienti politico-istituzionali e mancato o carente coordinamento fra i vari organi inquirenti che da tempo avevano attenzionato il gruppo Salvo-Cambria (i carabinieri, la Commissione parlamentare antimafia e la Guardia di Finanza)”, l’ipotesi secondo cui De Mauro pagò l’inchiesta giornalistica sulle esattorie, “sull’impero economico dei Salvo e sulle sue oscure radici”, non fu valorizzata, sebbene portata avanti da un valoroso investigatore come l’allora commissario Boris Giuliano, anche lui ucciso da Cosa nostra il 21 luglio 1979.
“I fatti, insomma, ci dicono – conclude il giudice estensore Angelo Pellino – che una coltre di omertoso silenzio o di servile ignavia, che non ha risparmiato nessuno degli uffici e organi preposti alle indagini, sia in ambito giudiziario che parlamentare, ha letteralmente inghiottito nel nulla anche quella pista, sancendo di fatto la fine delle indagini, o degli ultimi sussulti investigativi sul caso De Mauro”. (Agi) .

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