L’intervento del segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, per il Centenario del Contratto

“Non privilegi, ma equità e tenuta sociale”

La celebrazione del primo contratto giornalistico, stamani nel salone della Fnsi

ROMA – In questi ultimi mesi l’Italia ha preso atto di una grave crisi finanziaria ed economica e dell’impoverimento del Paese.
E’ tempo di sacrifici, ma è anche tempo di guardare al futuro per una nuova fase di sviluppo e di democrazia.
La civiltà del lavoro ci offre una grande eredità, un patrimonio di risorse, bagaglio di una convivenza difficile eppure dinamica e positiva che risiede anzitutto nei contratti collettivi di lavoro; in un’opera, cioè, delicata e nello stesso tempo essenziale che si scrive insieme tra parti sociali  e che nessuno può immaginare di scrivere da solo per un’altra parte.
Per la Fnsi i primi cent’anni del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico, il primo del movimento dei lavoratori in Italia, sono un traguardo che apre verso nuove mete, per superare i disagi di chi più di tutti patisce le conseguenze della crisi e per interpretare correttamente, nel ciclico necessario rinnovo, di un’antica convenzione del lavoro, le nuove esigenze di promozione sociale, di responsabilità e diritti.
La “convenzione” siglata il 17 dicembre del 1911, cento anni fa, da giornalisti e editori continua a mantenere intatta la sua attualità, la sua forza e la sua identità, professionale, morale e il suo valore regolatore di un sistema molto delicato come quello della stampa. Il contratto è oggi espressione di legalità costituzionale, elemento di convivenza, strumento di una società dinamica come quella dell’informazione.
Da quel 1911 il contratto collettivo nazionale in Italia lega insieme garanzie economiche e libertà: due poli che, per il mondo dei media, sono la bussola permanente di riferimento anche davanti ad un futuro denso di incognite che oggi dobbiamo affrontare.
Abbiamo attraversato un secolo talmente inquieto e tormentato che solo la consapevolezza delle nostre radici ci consente di continuare a lavorare guardando in avanti, grazie a un lascito che non è pura memoria retorica ma energia viva per un giornalismo che sa essere libero, credibile, responsabile della funzione storica di pilastro fondante delle democrazie.
L’idea dell’informazione come bene della società non è una semplice operazione economico-funzionale a questo o a quel potere ma è un obiettivo di tutti. Sottolineo di tutti ed è per questo che il nostro contratto, storicamente non solo rivolto a garantire i salari giusti indispensabili per un giornalismo libero, è un piano regolatore per tutelare tutti dagli abusi e dalle scorrerie. Non basta, ma le circostanze ci dimostrano che senza questa carta, tutti, non solo i giornalisti, saremmo ancora poveri e più deboli.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il tema dei contratti di lavoro, come oggi, alimentava il dibattito politico. Il nodo riguardava il ruolo del sindacato, il suo riconoscimento giuridico e la validità erga omnes del contratto collettivo.
Giulio Pastore, uno dei padri del sindacalismo cattolico solidaristico e di interesse nazionale, pose con forza la questione dei contratti di categoria come strumenti per superare gli squilibri interaziendali e di territorio.
Federico Mancini, giurista, uomo del sindacalismo di ispirazione e formazione socialista, sosteneva che il contratto è lo strumento per evitare il cosiddetto corporativismo di associazione che può diventare corporativismo aziendale e territoriale. Ma la contrattazione di categoria è utile per lo sviluppo e la coesione del Paese, quale strumento che stabilisce, con responsabilità, gli obiettivi irrinunciabili di valore e peso economico e sociale.
In altri termini, allora, su questa filosofia, potevano nascere sistemi di welfare, sulla base di principi universali, per l’assistenza malattia, come per il diritto all’abitazione. Si pensi all’Inam e alla Gescal, alimentati anche dal contributo dei lavoratori.
Quella lezione è ancora attuale oggi, tanto più se la intrecciamo con il nostro vissuto, fatto di una contrattazione che dà sostanza a un sistema di welfare specifico e di valore universale per la categoria dei giornalisti: Inpgi e Casagit sono fiori all’occhiello di una esperienza a cui non solo siamo intimamente legati ma a cui non vogliamo rinunciare, perché si tratta di un welfare, voluto dalle categorie e condiviso dal mondo di settore, che garantisce coerenza tra obiettivi salariali e di coesione di welfare professionale.
Oggi il contratto deve diventare lo strumento per realizzare un grande patto tra produttori per il lavoro e per l’innovazione, nel rispetto della democrazia, nella considerazione che l’impresa editoriale e il lavoro giornalistico siano strettamente collegati con la democrazia, come non capita in nessun altro processo produttivo.
La Federazione della Stampa vanta un primato, ma sa che la categoria, il mondo del lavoro tutto, hanno bisogno sulla materia dei contratti di grande innovazione e soprattutto di continuità per quanto riguarda la dignità che deve essere riconosciuta al lavoro, ai diritti delle persone, alle buste paghe e oggi, anche nel mondo dei media, alla lotta al precariato, tema centrale per il mondo del lavoro nell’epoca moderna.
Fare i contratti e rinnovarli non è facile, e mai lo è stato. Eppure la storia e la natura del contratto collettivo nazionale richiama il modello di sviluppo del Paese e del suo welfare, del sistema di garanzie e regole fondamentali e per promuovere e regolare lo sviluppo: in assenza, non c’è un meccanismo sufficiente, neanche quello più veramente tecnico- efficentista, che garantisca crescita di sistema.
E le buste paga povere segnano l’allarme, oggi per migliaia e migliaia di giornalisti, moltissimi giovani ancora tali a 40 anni, perché ancora in cerca di un lavoro stabile. Peggio ancora per migliaia di precari e freelance.
C’è chi talvolta pensa che il contratto, soprattutto quello nazionale, sia pure da superare, anche perché è vissuto come occasione di conflitto e per gli ultra liberisti è ritenuto anti moderno. Ma nessuno può far passare per moderno il ritorno di anticaglia in cui decide il padrone se e quando darti qualche euro in più.
La Fnsi, con i contratti stipulati con gli editori, ha  anticipato e governato i cambiamenti preservando (o cercando di farlo) la qualità del lavoro del giornalista, il contenuto editoriale finalizzato alla produzione di un bene speciale quale è l’informazione.
Non siamo marziani, ma stiamo dentro i processi del lavoro e del cambiamento. Non abbiamo bisogno di ricordarci continuamente da dove siamo partiti. Abbiamo bisogno di sapere però dove e perché sono state messe le nostre fondamenta: “Una linea di accordo nell’interesse comune” come venne definita l’intesa del 1911, nella convinzione che la strada migliore da percorrere fosse una convenzione privata” la quale stabilisca alcune norme fondamentali regolatrici tra giornalisti e proprietari di giornali”.
Come non richiamare allora quelle definizioni che erano la premessa all’inammissibilità ai contratti a termine senza diritti in caso di risoluzione del rapporto, il riconoscimento della qualifica di redattore, la regolamentazione di trattamento dei collaboratori e degli articolisti, e indennità mobili, il periodo di prova di sei mesi, le disposizioni a favore del giornalista colpito da malattia, il preavviso, l’anzianità professionale, l’apertura al trattamento pensionistico, l’autonomia del direttore? E se in quel momento il contratto era salutato come uno strumento di tutela del “proletariato del giornalismo”, non vi è dubbio che quei titoli e quelle materie siano diventati paradigmi per il mondo del lavoro tutto e il contratto nazionale è la prima base per superare le condizioni di “insicurezza di impiego e soggezione economica”, causate da contratti a termine di breve scadenza rinnovati spesso senza dar luogo a stabilità o peggio da rapporti di collaborazione senza garanzie.
Su questi ultimi punti il contratto da solo non basta, se – come accade oggi – il quadro del diritto del lavoro “innovato” negli ultimi anni è debole  e favorisce, in nome di una malintesa flessibilità, la precarietà.
Ecco perché tornare al contratto collettivo significa anche combattere lo sfruttamento. Con il contratto collettivo il tema fondante è quello della solidarietà in connessione con l’organizzazione del lavoro, della sua industria, delle sue imprese.
In una società competitiva come la nostra, per noi il contratto è una carta inclusiva. L’Inpgi oggi va considerato in questo contesto, con la sua specificità, la sua caratteristica di istituto pensionistico di categoria professionale.
Va curato bene, come la nostra dirigenza sta facendo, per assicurare stabilità della sua missione nel tempo lungo. Ma non può essere stressato da norme che ne modifichino caratteri e consistenza. 50 anni di sostenibilità richiesta nella manovra del Governo, senza contare i valori di crescita del patrimonio, sono oggettivamente una misura che non possiamo condividere.
L’obiettivo giusto di garanzia di sistema di controllo pubblico su un ente come l’Inpgi non può essere immaginato prevedendo sistemi di proiezione della sostenibilità alzando l’asticella dell’unità di misura come non si fa neppure nel sistema pubblico.
Nel 1996 il Governo, in un’altra situazione difficile, pensò di potersi impadronire del patrimonio della casse autonome. La vicenda si risolse con un prelievo forzoso, restituito più avanti. Oggi c’è il rischio che alzando l’asticella della cosiddetta “sostenibilità”, si vada fuori da quella linea di sussidiarietà  delle autonomie sociali finalizzata ad assicurare funzioni di solidarietà e coesione come è nello spirito della Costituzione e delle leggi europee. In una condizione di dinamismo e di efficienza si rischia di passare a un peggioramento delle coperture previdenziali nell’ambito della società italiana senza che ci sia un reale motivo. Almeno per quanto riguarda la condizione della nostra categoria, per la quale proprio di recente abbiamo fatto importanti sacrifici e decisive scelte – insieme con gli editori – non solo di riequilibrio dei conti ma di impostazione di welfare professionale che guarda anche alle possibilità di rimettere in moto il mercato del lavoro e dare una spinta all’innovazione da parte delle imprese, dalle quali si aspetta una risposta coerente e significativa.
Oggi si parla molto di modifica del modello contrattuale; soprattutto, e a sproposito di flessibilità. Ma la flessibilità – come detto – non può essere precarietà, non può essere contratti per buoni o cattivi, per aree sviluppate e aree sottosviluppate.  La nostra non è una battaglia privata.
I soggetti interessati, anche quelli costituzionali, al consolidamento dei valori democratici debbono essere attenti, perciò, oltre che al mantenimento delle specifiche autonomie dei giornalisti anche agli istituti che debbano garantirli.
Ci rifiutiamo di immaginare una società che viaggi e che tenga i lavoratori a diverse velocità: come i garantiti da impoverire o comunque da mettere sotto controllo e quelli non garantiti da sfruttare comunque.
Grazie al contratto ci siamo attrezzati al meglio in questi anni di impetuosa rivoluzione industriale e tecnologica, di impoverimento economico, non per il male minore, ma per evitare i disastri sociali e creare un tavolo regolatore comune per determinare condizioni di sviluppo, che hanno bisogno di soggetti protagonisti, in primo luogo imprenditori avveduti, che scommettano sulla produzione e i suoi valori, sull’innovazione, sui loro lavoratori: abbiano bisogno, cioè, di imprenditori onesti e di lavoratori  qualificati e impegnati.
Contrattazione inclusiva, quindi, quella di carattere nazionale, che consideriamo nostra carta di identità. Dal 1911 in poi è sempre stato cosi. E per sperimentare vie nuove abbiamo anche corso legittimi rischi e pagato dei prezzi: salari di ingresso, decontribuzione, li abbiamo provati non molto tempo addietro e oggi li riproponiamo in forma nuova solo per il lavoro a tempo indeterminato avendo osservato che la risposta del mondo delle imprese non era stata sempre corrispondente alle attese, avendo esse, in passato, privilegiato i rapporti di lavoro precari e a termine a fronte delle misure di agevolazione: caratteristiche che sono non più sostenibili.
Il dibattito di oggi è se davvero sia immaginabile tutelare diritti universali riducendoli ad alcuni che li hanno (per esempio i cosiddetti garantiti) per ridistribuirne agli altri. Non è la prima volta che appare questa linea che applica una condizione quantitativa alla categoria dei diritti (salari, salute e previdenza). Ma immaginare che sia possibile quantificare l’entità di questi diritti non significa considerare i cittadini lavoratori utenti e poco persone e comunità.
Non possiamo valutare, quindi, in ordine meramente economico i diritti essenziali del lavoro. C’è certo un problema qualità-quantità. E ciò non significa che non occorra tenere conto delle sostenibilità di sistema. Ma ciò non significa che la questione si possa risolvere riducendo, appunto, i diritti.
Questo atteggiamento corrisponde a quella che Cesare Pavese, nel suo saggio su l’Antologia di Lee Masters (“Spoon River”), definiva “la grande angoscia americana”, che sostanzialmente è l’assenza in America di forme di pensiero che funzionino secondo valori e criteri universali: “Pensare per valori e criteri universali – sottolinea Pavese – significa far parte di una società dove non siano, come credono gli sciocchi, aboliti il dolore, l’angoscia spirituale e fisica, la problematicità della vita, ma esistano gli strumenti per condurre una comune, concorde lotta contro il dolore, la miseria, la morte. Lee Masters testimonia con l’antologia che la società con cui si è trovata a vivere manca di questi strumenti, di questi valori universali, in altre parole che essa ha perso il senso e la guida dei suoi atti.”
Oggi la crisi pone tante domande, la stampa ne è voce e portavoce. Evidenzia dubbi e privilegi ed essa stessa è, spesso, accusata di vivere di privilegi. Chi sta con serietà in questo settore non reclama privilegi ma soltanto maggiore equità, tenuta sociale, dinamismo.
Pensare ancora alla modernità di contratti collettivi di lavoro come condizione di diritti e valori  universali, come principi della tutela e della promozione sociale culturale di tutti significa stare nel mondo presente e essere già dentro il futuro.
Ne va del diritto dei cittadini alla dignità e, per quanto ci riguarda, alla libertà. Ne va anche della libertà del mercato, che senza piani regolatori non è libero e non è vero mercato.
Troviamo alimento e valore nelle considerazioni del Manifesto dell’Unione Nazionale di Giovanni Amendola del 18 novembre del 1924 che suona ancora come monito per tutti i soggetti sociali e istituzionali: “Nel quadro di una vita nazionale fondata sulle restaurate libertà – private, politiche ed economiche – i promotori dell’Unione assegnano consapevolmente un posto eminente alle libertà che si ricollegano alla vita del lavoro.
Respinte, come utopie retrive, incivili ed antieconomiche, le pretese di incatenare al capriccio di un sistema politico o al tornaconto di capitalisti o di imprenditori miopi, la legittima difesa e la contrattazione del lavoro, essi affermano che la libertà dell’organizzazione del lavoro e dell’azione sindacale, entro i limiti della legge, è sacra quanto ogni altra libertà, e rappresenta non soltanto un diritto dei lavoratori, ma altresì un interesse della produzione e perciò un interesse nazionale”.
Consolidare il contratto allora oggi è un compito che ci è ancora richiesto, ci è richiesto anche per il nostro welfare, che resiste in quanto  non è  legato a una infinità di situazioni contrattuali parcellizzate.  Mi soccorre ancora la  stingente attualità del Manifesto dell’Unione Nazionale di Giovanni Amendola del 1924:
Sulla duplice base della libertà sindacale e della legalità, l’Italia deve tornare, senza esitazione e senza ritardo, a quella politica di progressiva ed intima associazione dei lavoratori alla vita dello Stato che fu il segreto della sua crescente prosperità e forza politica prima della guerra, e pose lo Stato italiano in condizione di affrontare la maggiore prova della nostra storia.
Ecco; difendere le regole fondamentali, le condizioni di un lavoro professionale libero al servizio dei cittadini e del loro diritto ad esse correttamente e compiutamente informati è compito di estrema qualità e attualità.

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