La corrispondente dell’Ansa dall’Egitto, Danila Clegg, non condivide l’appello di Reporters sans frontiers

Proteste in piazza Tahrir, al Cairo
Danila Clegg (corrispondente dell’Ansa dall’Egitto)
IL CAIRO (Egitto) – Ho letto la dura e allarmante messa in guardia di Reporters sans frontiers, che invita i media internazionali a non inviare donne a coprire gli avvenimenti in Egitto dopo il caso di tre colleghe aggredite sessualmente nella piazza della rivoluzione egiziana e non mi sento di condividerla.
Sto coprendo questa stessa piazza dal 25 gennaio. Oggi è un altro 25, di novembre, e mai in tutti questi mesi ho avuto la sensazione di essere stata davvero in pericolo, tranne nelle situazioni di scontri violenti e aperti.
Sono stata in piazza Tahrir, così come in molte altre strade e piazze di questa città durante la rivoluzione e dopo, e la sensazione è sempre quella di entrare in un luogo dove tenere gli occhi ben aperti, nel quale la tensione può esplodere da un momento all’altro e le dinamiche di massa sono imprevedibili e possono essere rapidissime.
Assembramenti si formano e si sciolgono senza che realmente se ne capisca il motivo, ci sono migliaia di persone ovunque e sicuramente non tutte richiamate dal desiderio di partecipare alla rivoluzione.
Sono stata a Tahrir anche stamattina. Non mi sento in pericolo, mi sento oggetto di sguardi maschili curiosi, invadenti, magari poco rassicuranti ma non tali da farmi pensare che è a rischio la mia incolumità fisica. Forse sono stata fortunata o forse mi hanno dato forza le decine di persone che in questi mesi si sono avvicinate per chiedermi se andava tutto bene, con un sorriso.
Anche questa mattina, mentre Mohamed el Baradei passava in mezzo ad una folla impressionante, dei ragazzetti mi hanno spintonato. Io ho reagito e subito dopo un ragazzo più grande si è rivolto a me per sapere se stavo bene.
Poco più tardi ho incontrato due giovani militanti che avevo conosciuto in un’altra marcia, quella dei copti per commemorare le vittime degli scontri alla televisione pubblica ad ottobre. Anche loro si sono subito preoccupati di sapere se avevo bisogno di aiuto e sono rimasti con me per tutta la mattina.
Ho sentito grande diffidenza verso di me, in quanto giornalista straniera, prima dell’estate nel momento in cui impazzavano notizie sui media egiziani sulla presenza di spie straniere in piazza Tahrir.
Molte volte sono stata fotografata, molte volte persone alle quali mi avvicinavo si sono rifiutate di rivolgermi la parola. Molte volte mi hanno chiesto se sono americana. Quando rispondevo che sono italiana, la tensione si smorzava subito. E’ un contesto difficile, ma non credo che le donne giornaliste debbano lasciare questa piazza. Così come non lo fanno le migliaia di donne egiziane che spesso rischiano molto più di noi.
La corrispondente dell’Ansa dall’Egitto, Danila Clegg, non condivide l’appello di Reporters sans frontiers
“Le giornaliste non devono lasciare piazza Tahrir”
Proteste in piazza Tahrir, al Cairo
Danila Clegg (corrispondente dell’Ansa dall’Egitto)
Sto coprendo questa stessa piazza dal 25 gennaio. Oggi è un altro 25, di novembre, e mai in tutti questi mesi ho avuto la sensazione di essere stata davvero in pericolo, tranne nelle situazioni di scontri violenti e aperti.
Sono stata in piazza Tahrir, così come in molte altre strade e piazze di questa città durante la rivoluzione e dopo, e la sensazione è sempre quella di entrare in un luogo dove tenere gli occhi ben aperti, nel quale la tensione può esplodere da un momento all’altro e le dinamiche di massa sono imprevedibili e possono essere rapidissime.
Assembramenti si formano e si sciolgono senza che realmente se ne capisca il motivo, ci sono migliaia di persone ovunque e sicuramente non tutte richiamate dal desiderio di partecipare alla rivoluzione.
Sono stata a Tahrir anche stamattina. Non mi sento in pericolo, mi sento oggetto di sguardi maschili curiosi, invadenti, magari poco rassicuranti ma non tali da farmi pensare che è a rischio la mia incolumità fisica. Forse sono stata fortunata o forse mi hanno dato forza le decine di persone che in questi mesi si sono avvicinate per chiedermi se andava tutto bene, con un sorriso.
Anche questa mattina, mentre Mohamed el Baradei passava in mezzo ad una folla impressionante, dei ragazzetti mi hanno spintonato. Io ho reagito e subito dopo un ragazzo più grande si è rivolto a me per sapere se stavo bene.
Poco più tardi ho incontrato due giovani militanti che avevo conosciuto in un’altra marcia, quella dei copti per commemorare le vittime degli scontri alla televisione pubblica ad ottobre. Anche loro si sono subito preoccupati di sapere se avevo bisogno di aiuto e sono rimasti con me per tutta la mattina.
Ho sentito grande diffidenza verso di me, in quanto giornalista straniera, prima dell’estate nel momento in cui impazzavano notizie sui media egiziani sulla presenza di spie straniere in piazza Tahrir.
Molte volte sono stata fotografata, molte volte persone alle quali mi avvicinavo si sono rifiutate di rivolgermi la parola. Molte volte mi hanno chiesto se sono americana. Quando rispondevo che sono italiana, la tensione si smorzava subito. E’ un contesto difficile, ma non credo che le donne giornaliste debbano lasciare questa piazza. Così come non lo fanno le migliaia di donne egiziane che spesso rischiano molto più di noi.