MONTECCHIO MAGGIORE (Vicenza) – “Azione garibaldina a Montecchio Maggiore, piccolo paese del Vicentino. Durante la notte un misterioso commando riesce a issare a 30 metri d’altezza due bandiere tricolori”. Con queste parole, il 5 agosto 2010, il giornalista triestino Paolo Rumiz introduceva l’articolo “L’eroico blitz sulla ciminiera” che, su “la Repubblica”, narrava l’episodio che, il 25 luglio, aveva scatenato l’ira dell’amministrazione leghista, guidata dal sindaco Milena Cecchetto, tutt’altro che contenta del clamore suscitato dalla notizia.
Ebbene, a distanza di un anno, con una lettera al direttore del Giornale di Vicenza, Ario Gervasutti, il giornalista confessa di essere l’autore del blitz garibadino.
Il quotidiano veneto, infatti, il 7 agosto 2010 gli aveva dedicato un articolo di Erica Freato che riprendeva lo “scoop” dell’intervista che Rumiz sosteneva gli avessero concesso i “garibaldini” autori del gesto “scovati” a Riva del Garda.
visto il putiferio attorno a questo strombazzato giro ciclistico della Padania che finisce in “casa sua” a Montecchio, e vista la mia anima garibaldina, sento il dovere di scriverle, sciogliendo per cominciare un piccolo mistero. Il capo del misterioso commando in camicia rossa che appunto a Montecchio, poco più di un anno fa, è salito di notte sulla ciminiera delle ex Marmellate Boschetti per issarvi un Tricolore di sei metri a quaranta metri d’altezza più un secondo Tricolore, più in basso, con la scritta “Viva Garibaldi”, sono io.
Ripeto: Paolo Rumiz, un vecchietto triestino di 63 anni che ha fatto dell’alpinismo anche estremo, è il comandante del nucleo d’assalto che in una notte straordinariamente limpida, a due passi da un bar frequentato da militanti della Lega, sopra le teste dei nottambuli distratti, è salito lassù pochi minuti prima dell’alba. Mie le bandiere, fatte fare su misura in un negozio di via San Giorgio a Trieste, mia l’organizzazione, mia l’esecuzione e mia l’idea.
A ben pensarci, ci avevo messo anche la firma: la bandiera piccola era stata appesa accanto al simbolo della mela cotogna della ditta Boschetti, e la cotogna è il frutto cui ho appena dedicato un libro. Totalmente veneto, viceversa, l’appoggio all’azione. Di Schio le camicie rosse su misura. Di Thiene, Montecchio e Valdagno gli altri esecutori materiali. Di Breganze l’indicazione precisa del luogo (inizialmente si era pensato al campanile di Dolo o al paese natale di Luca Zaia) e le regioni per compiere l’atto proprio lì. Di Vicenza la musica ispiratrice, tratta a sua insaputa dagli spartiti burloni di Bepi De Marzi.
La mia bella bandiera, come saprà, è rimasta lassù a sventolare per tre giorni, con disappunto della padanissima sindachessa di Montecchio. Lei avrebbe voluto toglierla subito ma, come immaginavo, non c’era in giro gente col fegato di salire lassù. Così per tre giorni mi sono goduto l’imbarazzo degli anti-italiani.
Attraverso i quotidiani locali e soprattutto le impeccabili relazioni di Antonella Fadda sul suo giornale, caro direttore, ho seguito la storia minuto per minuto fino al suo pilatesco finale: la ciminiera offerta a una compagnia telefonica, la quale ha potuto installare un nuovo ripetitore in cambio della rimozione dell’ostacolo. Senza rumore e senza spese per l’erario comunale.
A quel punto mi sono sdoppiato. Sono tornato sul posto come giornalista di “Repubblica” e ho seguito di persona, in camicia rossa, l’imbarazzante silenzio “democristiano” del consiglio comunale sull’evento che aveva segnato la settimana, mobilitato i vigili urbani, scatenato sospetti e “ciàcole” da bar a Montecchio e dintorni fin sotto le valli del Pasubio.
Ho fatto anche in tempo a registrare la dichiarazione del senatore Franco, secondo il quale chi aveva compiuto quell’azione si sarebbe meritato la galera, esattamente come i “serenissimi” se l’erano buscata dopo l’assalto a San Marco. Ero stupefatto: i padani, spiazzati dal “simbolo”, reagivano con la stessa goffaggine delle istituzioni nazionali dopo la presa del campanile. Non c’era più la Lega d’assalto di una volta.
Comunque sia, ora il senatore ha l’occasione di denunciarmi e per me non sarà un problema affrontare processi o galere per un Tricolore.
Ma torniamo a noi. Era chiaro, la storia imbarazzava, meno se ne parlava e meglio era. La sindachessa non mi aveva dichiarato nulla, aveva fatto sapere dalla sua addetta stampa che non si fidava dei giornalisti, e una volta tanto aveva ragione.
Alla chetichella le due bandiere erano state prese in amorevole consegna dalla polizia comunale, come da legge. Ma intanto era accaduto quanto speravo: l’immagine della camicia rossa col Tricolore a quaranta metri, lassù nella prima luce madreperla dell’alba, fissata da uno scatto implacabile dei miei complici, aveva fatto il giro del Veneto e di mezzo Nord Italia attraverso la Rete.
Il garibaldino che è in me voleva che nella mente della gente, nel centocinquantenario dell’impresa dei Mille, restasse l’immagine simbolica di quella piccola audacia.
Qualcosa che mettesse in crisi le istituzioni, esattamente come avevano fatto i Serenissimi a Venezia un bel po’ di anni prima.
Ora che il giro ciclistico della cosiddetta Padania si appresta a finire, non a caso, proprio a Montecchio, per consacrare in un tripudio di grigliate una Lega di potere che non ha più niente a che fare con la Lega di lotta degli inizi, e tanto meno col movimento venetista dei Serenissimi, mi sono accorto che quella vecchia immagine è tornata fuori come punto di riferimento di resistenza civile.
Sì, a Montecchio, non c’è solo la kermesse ciclistica dei secessionisti verdi. C’è anche la scalata alla ciminiera Boschetti di un bel commando in camicia rossa. C’è il Veneto che ha vinto con Garibaldi a Bezzecca, il Veneto che ha combattuto le campagne del nostro generale dal Gianicolo a Calatafimi, i Caduti sulle nostre montagne nella Grande Guerra, morti in nome di un’Italia ideale che nulla aveva a che fare col Paese in ginocchio ora governato proprio da coloro che la vorrebbero demolire.
Non è un caso che da queste parti si brucino pupazzi di Garibaldi. L’eroe dà fastidio, ma non perché ha fatto l’Italia. Dà fastidio perché era uomo libero, e oggi chi è libero dà fastidio. L’ideale è l’uomo genuflesso sul proprio telefonino, consumatore passivo. Sono questi disvalori che temo; non il giro di un Paese-che-non-c’è, ma il pensiero demolitore che ci sta dietro.
Per questo, la mattina di sabato, andrò col bravo libraio-alpinista Alberto Peruffo e centinaia di altri “garibaldini” veneti, fino al Pian delle Fugazze, per manifestare il mio dissenso verso chi osa passare in allegria sui monti della Grande Guerra mascherando come evento sportivo il desiderio di demolire il Paese.
Venite con noi, su quei dieci chilometri stupendi e ricchi di storia fino ad Anghebeni. Un piccolo trekking di resistenza civile, da cui soprattutto gli Alpini non possono esimersi, con la scusa che non possono far politica. Nessuno sa portare il Tricolore meglio degli Alpini.
Caro direttore, la “transumanza” sui monti del Vicentino non è un atto politico, esattamente come non lo è stato l’assalto alla ciminiera. E’ una proclamazione di valori che stanno sopra la politica. E’ la riaffermazione dell’idea di casa comune che hanno espresso combattendo i nostri vecchi.
Concludo dicendole che è stato proprio quella notte a Montecchio, in Veneto, che noi, “veci” e “bocia” in bilico sugli scalini di ferro della ciminiera Boschetti, davanti alle Piccole Dolomiti appena lavate dalla tempesta, nella luce incerta del mattino, abbiamo riscoperto la nostra bandiera.