Giuseppe Iselli (presidente Unione Nazionale Giornalisti Pensionati)

Giuseppe Iselli
Diciamoci la verità: c’è modo e modo per affrontare il valore costituzionale, la dignità, il peso politico del giornalismo italiano ed anche il giusto trattamento economico che spetta, o dovrebbe spettare, a chi esercita questo mestiere. Esiste un modo agitatorio, tribunizio, qualunquistico, vittimistico, assolutamente insopportabile che (almeno nell’opinione pubblica più attenta) parifica il mondo dell’informazione al peggio del mondo politico. E c’è un modo più prudente di guardare in faccia alla realtà, che cerca di fare l’interesse vero della professione, tentando di recuperare molto del terreno che ci è franato sotto i piedi.
L’impressione finale, però, è che, fra un congresso e l’altro, fra un urlo e una riflessione, fra un inciucio elettorale e una guerra correntizia, alla fine si sia dormito un po’ troppi anni e il risveglio improvviso ci abbia fatto ritrovare un altro mondo. Pensavamo di andare a New York e siamo arrivati a Pechino, credevamo di diventare tutti “free lance” anglosassoni e siamo precipitati nella “deregulation” più selvaggia e caotica.
Abbiamo perso le migliori occasioni politiche per cambiare profondamente l’Ordine o, forse, per abolirlo, come argomentavano alcuni, e adesso ci ritroviamo con un vecchio elefante appesantito che cerca disperatamente il suo cimitero. Nel frattempo né l’Ordine, né i contratti hanno impedito quello che leggi sul mercato del lavoro, innovazioni produttive e crisi editoriale hanno permesso: tagli all’occupazione garantita ed abnorme espansione del precariato.
Non è successo solo da noi, naturalmente, ma nel mondo dell’informazione, sicuramente più che altrove, tutto ciò ha causato una vistosa dequalificazione ed un evidente scadimento del prodotto giornalistico.
Adesso, forse, è arrivata la scossa. E’ giunta con la presa di coscienza (che per alcuni non è ancora purtroppo compiutamente acquisita) della “crisi” cui è avviato l’Inpgi e dei drastici provvedimenti necessari per evitarla. Insomma, appaiono le prime crepe nella cassaforte della categoria e chi non è completamente tonto comincia a drizzare le orecchie. Certo, il bilancio del 2010 è ancora ampiamente positivo, ma le entrate contributive (quelle che gli editori versano prelevandole dallo stipendio di chi lavora) non coprono completamente le spese previdenziali e l’avanzo di gestione è dato in larga misura dalla perizia e (diciamocelo francamente) anche dalla fortuna degli investimenti finanziari. E’ il riflesso della crisi, dei prepensionamenti e della mancata sostituzione di gran parte di chi è stato costretto ad andarsene con giovani assunti a tempo indeterminato: i co.co.co., si sa, costano molto, ma molto meno. Ma, disperati sono ora che lavorano, disperati saranno quando andranno in pensione: li si aiuta veramente se si impostano vertenze per fargli avere 10 euro a pezzo invece di 5?
Certo, mangeranno qualche panino in più, ma disperati resteranno.
Credo che, per quanto paradossale possa sembrare, per aiutare veramente i co.co.co. bisogna distruggere i co.co.co. Noi sappiamo che bisogna salvare l’Inpgi per salvare il futuro dei giornalisti, ma sappiamo anche che bisogna salvare, anzi estendere il lavoro garantito per salvare l’Inpgi. I provvedimenti sui quali si sta lavorando, cioe l’aumento dei contributi versati dagli editori e dell’età pensionabile per le giornaliste, sono un passaggio obbligato, ma non il solo. Credo che non dovrebbe essere sottovalutata un’altra leva, quella che prevede un significativo sgravio fiscale per quegli editori che assumono giornalisti a tempo indeterminato. E’ il vero valore aggiunto del “pacchetto” di salvataggio dell’Inpgi.
Dunque la vecchia logica del “posto fisso” torna alla ribalta? Ma non siamo solo noi, anziani reduci di quegli anni felici (che, fra l’altro,hanno permesso la realizzazione di buone pensioni) a sostenerlo. Qualcuno, di recente, ha ricordato come la pensava il ministro Giulio Tremonti uno o due anni fa: “Difendo la logica del posto fisso. La nostra tradizione è questa. Non accetto un mondo dove la precarietà è segno di modernità”. E ancora: “Credo al posto fisso. Non credo che la mobilità di per sè sia un valore. Penso che in strutture sociali come la nostra il posto fisso sia la base su cui organizzare il progetto di vita e la famiglia. Per me l’obiettivo fondamentale è ancora la stabilità del lavoro”. Certo, gli si può obiettare (come a molti altri ministri) che predica bene e razzola male, che ha detto ma non fatto, che la realtà ha scardinato i suoi sogni. Ma quanti (anche molto più importanti di noi come i sindacati confederali) hanno saputo far leva su queste contraddizioni, invece di passare il tempo a scannarsi reci- procamente?
Ancora di recente il professore Pietro Ichino ha ricordato una di- rettiva europea del 1999 che “vieta agli Stati membri di consentire che il contratto a termine sia utilizzato come strumento ordinario di assunzione dei lavoratori e impone, comunque la parità di trattamento fra assunti a termine e assunti a tempo indeterminato”. In base a ciò, il Tribunale di Genova ha già condannato lo Stato italiano in una causa promossa da insegnanti precari. Ma “la direttiva – aggiunge il professore – è vincolante anche per il comparto privato. Lo stesso identico problema è destinato a riproporsi anche nel settore editoriale e in molti altri settori del nostro tessuto produttivo dove è difficilissimo essere assunti con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dove l’apartheid tra protetti e non protetti è la norma, ormai, da un quarto di secolo”. Ichino arriva ad una sua conclusione: “D’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile”.
Avete sentito qualcuno rispondergli, avviare un discorso serio? Avranno voglia i vertici della Fnsi di cominciare per primi? Il Giornalista Pensionato
Non basta l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, ma una forte crescita dell’occupazione
Giornalisti: fissi e precari senza apartheid
Giuseppe Iselli
Diciamoci la verità: c’è modo e modo per affrontare il valore costituzionale, la dignità, il peso politico del giornalismo italiano ed anche il giusto trattamento economico che spetta, o dovrebbe spettare, a chi esercita questo mestiere. Esiste un modo agitatorio, tribunizio, qualunquistico, vittimistico, assolutamente insopportabile che (almeno nell’opinione pubblica più attenta) parifica il mondo dell’informazione al peggio del mondo politico. E c’è un modo più prudente di guardare in faccia alla realtà, che cerca di fare l’interesse vero della professione, tentando di recuperare molto del terreno che ci è franato sotto i piedi.
L’impressione finale, però, è che, fra un congresso e l’altro, fra un urlo e una riflessione, fra un inciucio elettorale e una guerra correntizia, alla fine si sia dormito un po’ troppi anni e il risveglio improvviso ci abbia fatto ritrovare un altro mondo. Pensavamo di andare a New York e siamo arrivati a Pechino, credevamo di diventare tutti “free lance” anglosassoni e siamo precipitati nella “deregulation” più selvaggia e caotica.
Abbiamo perso le migliori occasioni politiche per cambiare profondamente l’Ordine o, forse, per abolirlo, come argomentavano alcuni, e adesso ci ritroviamo con un vecchio elefante appesantito che cerca disperatamente il suo cimitero. Nel frattempo né l’Ordine, né i contratti hanno impedito quello che leggi sul mercato del lavoro, innovazioni produttive e crisi editoriale hanno permesso: tagli all’occupazione garantita ed abnorme espansione del precariato.
Non è successo solo da noi, naturalmente, ma nel mondo dell’informazione, sicuramente più che altrove, tutto ciò ha causato una vistosa dequalificazione ed un evidente scadimento del prodotto giornalistico.
Adesso, forse, è arrivata la scossa. E’ giunta con la presa di coscienza (che per alcuni non è ancora purtroppo compiutamente acquisita) della “crisi” cui è avviato l’Inpgi e dei drastici provvedimenti necessari per evitarla. Insomma, appaiono le prime crepe nella cassaforte della categoria e chi non è completamente tonto comincia a drizzare le orecchie. Certo, il bilancio del 2010 è ancora ampiamente positivo, ma le entrate contributive (quelle che gli editori versano prelevandole dallo stipendio di chi lavora) non coprono completamente le spese previdenziali e l’avanzo di gestione è dato in larga misura dalla perizia e (diciamocelo francamente) anche dalla fortuna degli investimenti finanziari. E’ il riflesso della crisi, dei prepensionamenti e della mancata sostituzione di gran parte di chi è stato costretto ad andarsene con giovani assunti a tempo indeterminato: i co.co.co., si sa, costano molto, ma molto meno. Ma, disperati sono ora che lavorano, disperati saranno quando andranno in pensione: li si aiuta veramente se si impostano vertenze per fargli avere 10 euro a pezzo invece di 5?
Certo, mangeranno qualche panino in più, ma disperati resteranno.
Credo che, per quanto paradossale possa sembrare, per aiutare veramente i co.co.co. bisogna distruggere i co.co.co. Noi sappiamo che bisogna salvare l’Inpgi per salvare il futuro dei giornalisti, ma sappiamo anche che bisogna salvare, anzi estendere il lavoro garantito per salvare l’Inpgi. I provvedimenti sui quali si sta lavorando, cioe l’aumento dei contributi versati dagli editori e dell’età pensionabile per le giornaliste, sono un passaggio obbligato, ma non il solo. Credo che non dovrebbe essere sottovalutata un’altra leva, quella che prevede un significativo sgravio fiscale per quegli editori che assumono giornalisti a tempo indeterminato. E’ il vero valore aggiunto del “pacchetto” di salvataggio dell’Inpgi.
Dunque la vecchia logica del “posto fisso” torna alla ribalta? Ma non siamo solo noi, anziani reduci di quegli anni felici (che, fra l’altro,hanno permesso la realizzazione di buone pensioni) a sostenerlo. Qualcuno, di recente, ha ricordato come la pensava il ministro Giulio Tremonti uno o due anni fa: “Difendo la logica del posto fisso. La nostra tradizione è questa. Non accetto un mondo dove la precarietà è segno di modernità”. E ancora: “Credo al posto fisso. Non credo che la mobilità di per sè sia un valore. Penso che in strutture sociali come la nostra il posto fisso sia la base su cui organizzare il progetto di vita e la famiglia. Per me l’obiettivo fondamentale è ancora la stabilità del lavoro”. Certo, gli si può obiettare (come a molti altri ministri) che predica bene e razzola male, che ha detto ma non fatto, che la realtà ha scardinato i suoi sogni. Ma quanti (anche molto più importanti di noi come i sindacati confederali) hanno saputo far leva su queste contraddizioni, invece di passare il tempo a scannarsi reci- procamente?
Ancora di recente il professore Pietro Ichino ha ricordato una di- rettiva europea del 1999 che “vieta agli Stati membri di consentire che il contratto a termine sia utilizzato come strumento ordinario di assunzione dei lavoratori e impone, comunque la parità di trattamento fra assunti a termine e assunti a tempo indeterminato”. In base a ciò, il Tribunale di Genova ha già condannato lo Stato italiano in una causa promossa da insegnanti precari. Ma “la direttiva – aggiunge il professore – è vincolante anche per il comparto privato. Lo stesso identico problema è destinato a riproporsi anche nel settore editoriale e in molti altri settori del nostro tessuto produttivo dove è difficilissimo essere assunti con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dove l’apartheid tra protetti e non protetti è la norma, ormai, da un quarto di secolo”. Ichino arriva ad una sua conclusione: “D’ora in poi, tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile”.
Avete sentito qualcuno rispondergli, avviare un discorso serio? Avranno voglia i vertici della Fnsi di cominciare per primi? Il Giornalista Pensionato