Intervista a Mario Pirani: "L’Italia è in una situazione di disgregazione politica ed etica”

“Il peggior Governo per il peggio degli italiani”

Mario Pirani

ROMA – Guardando la storia del nostro Paese dal dopoguerra fino ad oggi “per la sinistra non poteva andare peggio di così” e lo stesso vale più in generale per l’Italia che oggi è “in una situazione di disgregazione politica ed etica quale io non ricordo”. Mario Pirani, in un’intervista all’Adnkronos, si sofferma sulle fragilità di sinistra e sindacato rimaste pressoché intatte da oltre 50 anni e sulla faccia che oggi il nostro Paese propone a se stesso e al mondo. L’occasione è l’uscita dell’ultimo libro che racconta la sua vita e gli intrecci con quella del nostro Paese dal fascismo alla Loggia P2. Il titolo, “Poteva andare peggio, mezzo secolo di ragionevoli illusioni” (Mondadori – € 20), già denuncia in sé un preciso punto di vista: fino agli anni 70-80, in fondo, l’Italia se l’é cavata.
“Potevamo finire come la Germania e il Giappone, che furono sconfitti e occupati per alcuni anni – osserva il giornalista – A noi, con la guerra di liberazione e con la Costituzione è andata meglio di quanto poteva andarci quando abbiamo dichiarato guerra a tutte le grandi potenze mondiali. Senza contare che l’Italia nel 1945 era completamente distrutta e alla fine del 1950-60 era una delle potenze economiche emergenti tanto è vero che si parlò del miracolo italiano. Poteva andare peggio anche negli anni del terrorismo e invece alla fine ne siamo usciti”.
Naturalmente, non manca un riferimento anche personale visto che Mario Pirani, classe 1925, di padre ebreo, si è salvato per pura fortuna e che, una volta uscito dal Pci, ha ricevuto un’offerta di lavoro che gli consentiva di rispondere alla sua necessità di rendersi utile per il Paese.
“Ho cercato di scrivere un romanzo di come la storia d’Italia sia stata vissuta da un individuo della mia generazione – spiega Pirani – Da questo punto di vista non è un libro di storia e non è un saggio. E’ piuttosto un romanzo di cose vere con quel tanto di verità che io credo di aver intuito nelle cose, poi penso sempre che ci si possa sbagliare”, dice Pirani che ripercorre nel suo libro il dolore del confino, l’angoscia delle persecuzioni, l’innamoramento totalizzante per il comunismo e poi la scelta di abbandonarlo dopo i fatti d’Ungheria e la reazione del partito, l’avventura africana con l’Eni di Mattei e il divorzio dalla multinazionale dopo la sua morte, il ritorno definitivo al giornalismo con tutte le peripezie e le delusioni che hanno il loro apice nello scontro con i tentacoli pervasivi della P2. Poi Pirani sceglie, infatti, di tornare “a casa”, al quotidiano la Repubblica.
“La sinistra italiana – è la sua analisi – è composta da due grandi filoni quello riformista e quello del massimalismo rivoluzionario a parole. Togliatti negli anni dal ‘45 al ‘50 ha saputo tenere assieme tutto questo rendendo costituzionali le masse popolari italiane, le masse bracciantili, quelle operaie e nello stesso tempo proiettando in una specie di dimensione atemporale, come in un’icona, l’idea del socialismo”. Il refrain era ‘”un giorno faremo come in Russia, ma – dice – era un giorno che non aveva scadenze, era solo una cosa messianica. Ma quando l’Unione Sovietica si è mossa ed ha invaso Ungheria prima e Cecoslovacchia poi, questa possibilità di mantenere questo quadro unitario è saltata e da allora non si è mai ricomposta”.
“Anche quando si sono fatte delle fusioni, delle minifusioni, anche quando è caduto il muro di Berlino, noi abbiamo sempre avuto una parte che ha mantenuto delle posizioni pseudo-rivoluzionarie e una parte riformista. Invece di cercare una unità di fondo tra queste due parti oppure una unità delle forze riformiste più larghe, si è inseguito l’idea che alleandosi con quello che restava della sinistra cattolica e facendo un partito unico si sarebbe potuti arrivare miracolosamente ad avere una socialdemocrazia italiana. Ma – osserva – non è pensabile una socialdemocrazia di questo tipo visto che ogni volta che si deve votare su una questione che riguarda la famiglia, le donne, la salute eccetera, ci si trova con delle posizioni ideologiche assolutamente antitetiche. Per cui questo partito è rimasto impantanato nella ricerca di un’identità che ha sempre più sperso”.
Anche il rapporto della sinistra con la donna di cui si parla nel libro, secondo Pirani, non è cambiato. “All’inizio nel Pci – dice – c’è stata un’idea di fondo di eguaglianza fra uomo e donna, ma eguaglianza nel senso che i diritti sociali, salariali e del lavoro dovessero essere gli stessi. Quello che il ‘moralismo’ comunista non capiva è che la donna aveva la sua specificità”. Non basta essere uguali all’uomo. Ci sono, infatti, dei diritti che riguardano la donna in quanto tale e, al di là dei diritti, la figura specifica della donna ha una sua autonomia totale e questo sia il Pci che tutti gli altri partiti hanno faticato moltissimo a capirlo. Sono stati sempre fortemente maschilisti”.
“Mi ricordo la battaglia per il voto alle donne – racconta – con il Pci che era diviso perché pensava che le donne avrebbero dato il loro voto ai preti. Togliatti riuscì ad imporre che si desse il voto alle donne proprio per avvicinare le grandi masse femminili contadine alla sinistra, ma restava anche lui prigioniero di quell’idea che il divorzio come l’aborto, fossero tutte cose che potevano interessare solo la piccola borghesia e non il proletariato che, invece, si sarebbe liberato solo dopo essersi affrancato dalle sue schiavitù economiche. Questo fu un grande limite che, sotto altre forme, è rimasto fino ad oggi”. “E’ evidente – fa notare Pirani – lo scarso peso che le donne hanno ancora oggi. Perché, per esempio, non hanno candidato una donna a capo del Pd? Io proposi la Finocchiaro ma D’Alema e gli altri dissero che era meglio Bersani”, salvo però non saper spiegare perché.
E il sindacato ? “Anche lì – rileva Pirani – si riproduce la stessa spaccatura della sinistra, tra riformisti e massimalisti. Si arrivò a capire che l’Italia stava vivendo il suo miracolo economico quando il miracolo c’era già stato e cominciava a defluire. E anche per capire che il salario dovesse puntare a forme differenziate per favorire la produttività ci misero moltissimo. Anche oggi ci troviamo di fronte alla stessa cosa. Se prendiamo la discussione su Pomigliano lo riscontriamo subito.
Anche in questo caso, evidenzia Pirani, “non si risponde alla domanda di base e cioè se vogliamo avere un’industria automobilistica in Italia oppure no. Tendendo conto che oggi l’industria automobilistica si confronta con il mondo intero e che non c’è più il protezionismo che allora copriva la Fiat alle frontiere, bisogna capire con cosa dobbiamo fare i conti se vogliamo avere un’industria automobilistica. Ma – è la critica di Pirani – fare i conti con la realtà è una cosa che fa venire il morbillo ad una parte della sinistra e del sindacato” che soffrono della malattia del ‘Puer aeternus’, dell’eterno fanciullo”.
A chi è nato e vissuto in pieno regime, come Pirani, viene da chiedere se, come alcuni sostengono, c’è qualche assonanza con il presente. “Oggi non c’è il fascismo nel senso di allora – dice – C’è la libertà di stampa, di sciopero, di parola, la libertà di fare quanti partiti si vogliono. Differenze essenziali. Direi che la cosa peggiore che è avvenuta è che per la prima volta nella storia d’Italia (compreso anche il periodo fascista), un governo esalta gli aspetti negativi antropologici del carattere italiano. Mi riferisco all’aspetto che viene dal ‘600 ‘O Francia o Spagna purché se magna’. Come dire, quello che conta è l’individuo e al massimo la sua famiglia, del resto che ci frega! Le tasse sono un furto dello Stato, seguire le regole vuol dire farsi fregare”.
Questi, osserva, “erano i difetti intrinseci del carattere italiano, il non avere il senso della cosa pubblica e della solidarietà pubblica. Mentre, però, prima i governi di sinistra o di destra (persino il governo fascista) frapponevano a tali difetti un messaggio pedagogico in cui le virtù venivano esaltate, oggi c’è il rovesciamento di tutto questo. Ora c’è un governo che afferma che far pagare le tasse significa mettere le mani nelle tasche degli italiani, che chi paga il canone Rai è un imbecille, che chi rispetta i magistrati è un correo di nefandezze, che il Capo dello Stato e tutti gli organismi di garanzia sono impedimenti a governare. Ecco – rileva Pirani – tutto questo finisce con il dare agli individui il via libera ad esprimere il peggio di sé perché c’è, insomma, una identificazione fra il peggio degli italiani e il peggior governo che abbiamo mia avuto che è l’elemento che caratterizza oggi in modo particolare e specifico l’Italia”.

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