Così in Calabria all’indomani dello sbarco alleato del 3 settembre 1943

Giornali, giornalisti in tempo di guerra

Corrado Alvaro, scrittore, eminente figura di giornalista

REGGIO CALABRIA – I miei sessant’anni di servizio giornalistico sono in realtà sessantasei. Quando nel gennaio del 1944 fui chiamato a costituire e poi a dirigere l’Ufficio Stampa presso il Governo Militare Alleato (Alllied Military Covernment of Occupied Territory), ero poco più che ventenne. Tutti quelli che appartenevano alla mia generazione sapevano molto – non tutto – del fascismo e quasi niente della democrazia. Personalmente, poi, non sapevo affatto che cosa fosse un ufficio stampa. Sulla democrazia le mie idee erano poche, vaghe e confuse.

Ad istruire quanti di noi si accingevano ad assumere funzioni pubbliche avrebbe provveduto l’Usis, una struttura al seguito dell’esercito americano destinata all’informazione e (la diciamo la parola?) all’indottrinamento. Il mio ufficio a Palazzo del Governo era pieno zeppo di pubblicazioni di varia taglia e dimensione che l’armata USA distribuiva senza risparmio a profitto di un popolo sconfitto che si intendeva recuperare ai principi in nome dei quali i soldati alleati si battevano, spesso morivano, sui vari fronti di guerra.

Due gli ufficiali che avevano competenza in materia di stampa ed informazione: l’americano Denning e l’inglese Taylor. Molto avrei imparato da quest’ultimo. Teneva ufficio in un elegante edificio che ancora oggi si affaccia sulla via argine destro Calopinace (palazzo Travia): Più volte la settimana mi trasferivo da piazza Italia in via argine destro, dove praticamente mi trattenevo per l’intera giornata. Il pranzo, poco dopo mezzogiorno, veniva servito da camerieri in frac secondo lo stile british giudicato dagli uomini in divisa irrinunciabile, pur nelle circostanze straordinarie in cui si trovavano.

Le propensioni dei comandi alleati erano tutte per la sinistra, per ragioni che, ancora oggi, sconosco. I casi di Caulonia, con la “repubblica” di Cavallaro, nasce da un vistoso errore del prefetto dell’epoca inspiegabilmente avallato – forse sollecitato – dal governatore di Reggio, Lonmon. Ma torniamo sul tema: i giornali, i giornalisti, le regole imposte dai Comandi Militari alleati.

L’Ufficio Stampa di novissimo conio era tenuto ad istruire – e poi ad autorizzare – le richieste per nuove testate. Ne fioccavano da ogni parte. I quotidiani erano due: “Il Tempo”, di ispirazione moderata, e “Calabria Libera”, dichiaratamente comunista. I sindacati di sinistra avevano il loro periodico “L’Amico del Popolo”. Tutti i partiti, del resto, avevano il loro giornale. I fogli indipendenti erano tali solo di nome. Ma l’ufficio – si era ancora in piena guerra – non poteva limitarsi soltanto a questi compiti di routine. Gli alleati intendevano anche esercitare una occhiuta censura sul contenuto delle varie pubblicazioni.

Per le infrazioni alle leggi vigenti nei territori occupati erano previste severe misure coercitive, quali il sequestro e, nei casi più gravi, la revoca dell’autorizzazione alla gerenza. Il provvedimento (di natura, così si diceva, amministrativa) che più spaventava i titolari di testata era tuttavia un altro. La carta da stampa era contingentata ed alla sua assegnazione provvedeva la prefettura: nei fatti il mio ufficio, quindi gli ufficiali dell’AMGOT. Il giornalista cui erano affidati compiti così ingrati si destreggiava alla bell’e meglio. I suoi rapporti con gli operatori dell’informazione non potevano essere migliori. E tuttavia egli era costretto a rendere conto del suo lavoro a gente che era venuta in Italia per liberarci ma anche per castigarci.

La penuria di carta era un dato reale. Era anche vero tuttavia che alla ripartizione delle scorte disponibili si provvedeva con criteri politici, Al prefetto (Priolo) era demandato il compito di adottare i provvedimenti in materia di stampa; e, quindi, ad emettere, di volta in volta, i relativi decreti. Una finzione. Tutti di estrazione inglese o americana, gli ufficiali del Governo Militare Alleato (al cui vertice c’era il terribile maggiore Harrison) non delegavano agli italiani una sola oncia del loro potere, che, sul settore stampa e propaganda, era inappellabile.

Nel marzo del ’44 il prefetto, sentito il  parere del rappresentante locale del Governo Militare Alleato adottava un decreto che disciplinava, come diremo meglio qui di seguito, la stampa e, quindi, la diffusione di giornali nella provincia di Reggio Calabria. Lo faceva, si noti, visto l’art. 53 T.U. della legge comunale e provinciale. Il colmo: una legge fascista, che era funzionale rispetto ai rigori di una dittatura negata ad ogni principio di libertà. Una svista?

Ad ogni modo, al di là della forma – che, pure, in democrazia dovrebbe significare qualcosa – restava stabilito che, a far tempo dal 1 marzo 1944, era consentita la pubblicazione di solo sette testate sulle tante all’epoca in circolazione: La Luce, La Voce di Calabria, L’idea, Il Lavoratore, Democrazia, L’Amico del Popolo, Il Commercio Calabrese, quest’ultimo in quanto organo tecnico commerciale. Cinque testate, con la scusa della carta, venivano soppresse: Il Rinnovamento, L’artefice, Il Velivolo, Il Farfallone,Gioventù Nuova. Si trattava di periodici in vario modo sgraditi al potere dominante. Insopportabile, quanto e più di tutti gli altri, Gioventù Nuova.  Scanzonato ed irridente, non la perdonava a nessuno. Normale che fosse visto come il fumo agli occhi da chi stava, all’epoca, in cabina di comando, italiani o stranieri (occupanti) che fossero.

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