MESSINA – In letteratura, il buio è spesso esperienza esistenziale. In Dante, è inferno e perdita, ma in Leopardi e Dickinson assume i tratti del vuoto fertile, della notte cosmica che custodisce l’essere. Nietzsche ci dice che guardare nel buio significa affrontare il fondo dell’esistenza senza illusioni. Paul Celan, testimone del Novecento, trasforma il buio in lingua del trauma, ma anche in memoria vivente. In tutti questi casi, il buio non è solo privazione, ma rivelazione lenta, luogo di ascolto e di gestazione.
E oggi? Oggi, in un’epoca segnata dall’iper esposizione alla luce – reale e metaforica – il buio può essere riscoperto come soglia ontologica, condizione che, anziché oscurare, invita a tornare all’origine, a deporre le illusioni, a prepararsi ad una nuova visione.
Tutte queste cose si possono realizzare o, meglio ancora, ideare leggendo il titolo del primo romanzo (già diventato un classico) di Anna Mallamo.
Eccoci qui! Ci sono libri che non si lasciano ridurre a una sola voce, e “Col buio me la vedo io” (Einaudi) è uno di questi. Leggendolo, tanti sono gli spunti, le chiavi di lettura, i livelli simbolici e narrativi che ogni tentativo di sintesi sembra un tradimento. E poi c’è la scrittura — così cesellata, così esatta — che ti appare come poesia metrica, con un ritmo interno controllato, dolente, perfino musicale. Con il tempo necessario a scegliere un varco, però, si riesce a trovare un punto d’ingresso per parlarne. Sapendo che non sarà l’unico possibile.
Il buio è il luogo dove la protagonista, Lucia Carbone, una adolescente smarrita in una Reggio Calabria degli anni ’80 priva di ascolto e compassione, scende non per perdersi, ma per ritrovarsi. La cantina della nonna, dove Lucia rinchiude un compagno di scuola, figlio di un boss, diventa non solo uno spazio fisico, ma una vera e propria “camera oscura” dell’anima, in cui la violenza e la tenerezza, la colpa e la redenzione coesistono e si rivelano.
Il gesto estremo compiuto da Lucia — un sequestro infantile ma inquietante — è un atto liminale: un rito di passaggio. È dentro il buio che si rivela la verità spoglia dei personaggi, ma anche la loro umanità più ambigua.
Il buio, che maneggia la Mallamo, agisce come una soglia sacra che consente il passaggio da una condizione di limitazione a una di espansione. Più che un’opposizione alla luce, il buio è il suo completamento.
L’oscurità, dunque, lungi dall’essere lo spazio dell’errore e del trauma da temere e da negare, qui è un’alleata, uno strumento di rivelazione. Come nella camera oscura della fotografia analogica, è proprio nella condizione d’ombra che l’immagine — prima invisibile, latente — si manifesta. Il buio non è dunque passività, ma ambiente necessario alla visibilità profonda, alla gestazione del senso.
Nel buio si rinuncia alla chiarezza immediata, alla violenza dell’evidenza, per affidarsi ad un processo più lento, quasi alchemico. È una scelta contro la luce abbagliante della semplificazione, contro la tirannia del tutto subito.
È anche un atto di fiducia: che qualcosa emergerà, se solo si ha la pazienza di abitare la notte.
Così si manifesta una postura quasi ermetica dell’anima: chi “se la vede con il buio” accetta il rischio dell’opacità, ma anche la possibilità di una rivelazione più autentica.
Il buio, in questo romanzo, non è solo contesto, ma condizione epistemica: ciò che consente al vero di apparire, non come dato evidente, ma come immagine rivelata nel silenzio e nell’attesa.
“Col buio me la vedo io” rivendica, infatti, un gesto di autonomia esistenziale: me la vedo io è insieme sfida, arroganza, ma anche desiderio di cura e anche una dichiarazione etica ed esistenziale.
La protagonista se la vede col buio, perché nessun altro lo farà al posto suo.
E così, nella camera oscura della cantina, qualcosa si sviluppa davvero: un’immagine nuova, ancora sfocata, di sé. Forse non più innocente, ma certamente più viva.
E un sogno condiviso, essere giovani, qui e oggi, nell’anno di grazia 1981, sulla punta dello stivale, sulla punta del Novecento, e essere attraversati dalle cose, incantesimati e frastornati e straziati e insaziati.Nella striscia di luce, con attorno ogni cosa buia, e un sacco di morte che non ci tocca, non può toccarci.
Anna Mallamo con una lingua densa, a tratti ferina, che incide la pagina come la ferita incide la pelle, ci costringe ad affrontare anche la potenza ambigua della sottrazione.
In questo libro, la sottrazione non è solo l’atto fisico di sequestrare una persona, ma anche il movimento interiore che Lucia compie nel tentativo di sottrarsi ad una vita che non ha scelto. L’autrice ci invita a riflettere su come la violenza, sia essa esterna o interiore, derivi da una sottrazione profonda — una sottrazione di possibilità, di libertà, di speranza.
Mallamo, con coraggio e originalità, ci mostra il volto più oscuro della resistenza e della rivolta, sfidando le aspettative morali e facendo di un atto di violenza il nucleo di una riflessione universale sulla condizione umana, soprattutto di quelle vite che vivono in contestiche soffocano l’individualità.
Ogni frase vibra come un nervo scoperto in questo romanzo che non giudica i suoi personaggi, non li assolve né li condanna: li segue, li ascolta, gli lascia spazio.
Stiamo un altro poco così, in silenzio, ma sobillate, “votate suprasutta”, sull’orlo di qualcosa di meraviglioso, di spaventoso, di ignoto a mia madre, mia nonna, a tutti i cerchi che abbiamo attorno, dentro, davanti. Io, solo io ne ho un altro che mi stringe: il cerchio di buio che sento da lontano, il mio prigioniero, sdraiato anche lui in un altro mondo, lontanissimo da qui.
E allora è tutto così troppo buono, bello e vero in questo libro che Jung leggendolo direbbe che qualcuno ha dato vita alla sua “One does not become enlightened by imagining figures of light, but by making the darkness conscious”.
Anna Mallamo, con la grazia naturale della sua parola con un’eleganza mai ostentata, ha teso un filo, non poi così tanto sottile, tra potere e fragilità. Ci ha mostrato che la redenzione non si ottiene sfuggendo le proprie ombre ma conoscendole e riconoscendole.
In questa luce (o meglio, in questa ombra), leggere Anna Mallamo diventa un esercizio di vita e per la vita inevitabile. Solo un consiglio: leggendo “Col buio me la vedo io” non cercate l’evidenza, ma il dettaglio nascosto, il riflesso nell’acqua scura, la parola che si rivela mentre scompare.
Questa è un’opera che chiede occhi pronti alla meraviglia e una forma di ascolto che nasce più dal tatto dell’anima che della mente. (giornalistitalia.it)
Ilda Tripodi
CHI È ANNA MALLAMO
Strettese, ovvero calabrese di Reggio emigrata a Messina e in continuo andirivieni sullo Stretto, Anna Mallamo è giornalista professionista, dirige le pagine di Cultura e spettacoli della «Gazzetta del Sud» e gestisce un blog sull’«Huffington Post».
Per «l’Unità» ha tenuto una rubrica settimanale che raccontava le gesta semiserie, ma profondamente politiche, di un condominio di anziane donne calabresi.
È autrice di “Lezioni di tango” (Città del Sole 2010), sul mondo del tango e i suoi protagonisti, e suoi racconti sono apparsi in diverse antologie e riviste. Per Einaudi ha pubblicato “Col buio me la vedo io” (2025). (giornalistitalia.it)