Questo il vero senso del messaggio di Mons. Morosini, offuscato da un titolo ad effetto

“Polsi: qui si dividono i buoni dai cattivi”

Il vescovo di Locri Mons. Giuseppe Fiorini Morosini

La statua della Madonna di Polsi

REGGIO CALABRIA – La prima regola del buon giornalismo è – o, forse, sarebbe meglio dire: dovrebbe essere – il rispetto della verità, nel racconto dei fatti. Pura e semplice deontologia professionale per chi ha eletto il diritto/dovere di informare a proprio mestiere. Giornalismo uguale resoconto fedele ed onesto di un avvenimento. Che fa a pugni con la ricerca dell’effetto. Peggio ancora se, nel far questo, si trascura (omette?) la realtà di un evento. O di un’affermazione.
L’esempio (cattivo) è fresco di giornata e ci arriva, purtroppo, da uno dei maggiori e più prestigiosi quotidiani italiani, sia pure nella versione on line: “Polsi, nessuno vuole mancare alla processione della ‘ndrangheta”. Tradotto: il Santuario della Madonna di Polsi, meta, ogni anno, di uno storico pellegrinaggio da parte di migliaia di fedeli, nella data del 2 settembre, stando a quanto dicono i colleghi del Corriere, è, indiscutibilmente, il Santuario della delinquenza. Con la “d” maiuscola.
Come se di Madonne ce ne fossero due: una per i buoni. L’altra, di casa a Polsi, per i mafiosi.
Peccato che il senso del messaggio gridato a gran voce, proprio all’arrivo della processione, ieri, sul sagrato del Santuario della “Madonna della montagna”, dal vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini, fosse tutt’altro. E, soprattutto, non lasciava spazio alle interpretazioni: “Cari fratelli che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le vostre ricchezze, il vostro potere, il vostro onore, non c’è nulla che possiamo condividere. I nostri cammini non si congiungono a Polsi, se mai si dividono ancora di più”.
Così monsignor Morosini, in un’omelia che, nella consapevolezza – certo – della presenza, tra quelle migliaia di fedeli, di pecore bianche e pecore nere, nerissime (questa, sì, è cronaca: non è una favola che il Santuario di Polsi sia stato per anni la cornice prediletta per le reunion dei boss della ‘ndrangheta), non ha usato parole equivoche. Ha, piuttosto, scagliato, con coraggio e chiarezza, la condanna – sua e della Chiesa – contro la “malapianta” che – sapeva e per questo il suo messaggio si è levato più forte e in quella precisa occasione – essere compartecipe di quella atavica manifestazione di fede.
E allora come si fa, di fronte ad un vescovo che non ha paura di dire: “Non possiamo chiudere gli occhi sulla realtà calabrese. Sull’usura, la droga, le intimidazioni, le sopraffazioni, la violenza. E non sarà Roma a risolvere i nostri problemi, dobbiamo essere noi a rialzare la testa…”. Come si fa a condensare un messaggio che, una volta tanto, arriva forte, chiaro, trasparente, dalla Calabria per la Calabria, e dà voce a tutta quella “brava gente” soffocata da un malaffare che non vuole e non approva, in un titolo come questo: “A Polsi la processione delle cosche: tutti presenti”?
Non sarebbe stato più giusto, per non dire doveroso, infischiarsene dell’effetto e dire, semplicemente, la verità? Il vescovo di Locri dal Santuario di Polsi: “Qui si divide il cammino tra gli uomini di fede e chi ha scelto l’illegalità”.
Forse una riflessione seria, accompagnata da una sana autocritica, con uno sguardo alla deontologia di questo che resta pur sempre un “mestieraccio”, non farebbe male a nessuno. Specie a quei tanti colleghi che scrivono ogni giorno della dura realtà delle terre del Sud, tra queste la Calabria, senza esserci mai stati. Se non a ferragosto.

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