COSENZA – Nelle prime tre righe è scritto l’essenziale. Proprio come fanno i giornalisti bravi con i loro articoli. «Osserva il giudice (Francesca De Vuono, ndr) che le risultanze istruttore consentono, oltre ogni ragionevole dubbio, l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per il reato ascrittogli». L’allora editore di Calabria Ora, Piero Citrigno, esercitò violenza privata nei confronti del giornalista Alessandro Bozzo per aver cambiato le sue condizioni lavorative in peggio, tramutando il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tempo determinato.
È scritto nelle motivazioni della sentenza, emessa il 14 settembre 2016, che ha condannato Citrigno a 4 mesi di reclusione, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni al padre del giornalista costituitosi parte civile. Alessandro Bozzo ha deciso di andarsene da questa terra il 15 marzo 2013, lasciando sgomenti tutti i suoi affetti più cari.
È dai diari del giornalista, consegnati in Procura dal padre, che emerge come tutto ciò «non si trattasse propriamente di risoluzione consensuale» del contratto; diari risultati sempre attendibili proprio perché privati e «rimanendo nella sua esclusiva disponibilità, non aveva alcun interesse a scrivere circostanze non veritiere». Oltre ai diari personali di Alessandro, a dimostrare che quella situazione era peggiorativa ci sono state le testimonianze dei colleghi. «Tali emergenze processuali – è scritto – consentono, oltre ragionevole dubbio, l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per il reato ascrittogli.
È configurabile il reato di violenza privata atteso che il comportamento posto in essere dall’odierno imputato nei confronti di Alessandro Bozzo ha limitato la libertà di autodeterminazione dello stesso (…) l’accettazione delle condizioni contrattuali peggiorative è il risultato di una situazione di costrizione determinata da detta condotta che si è estrinsecata nel prospettare al Bozzo la necessità di dimettersi e di accettare le condizioni contrattuali peggiorative».
Anche senza «minaccia esplicita», quindi, «significava che la mancata accettazione di dette condizioni avrebbe comportato la cessazione della sua attività lavorativa presso il giornale e che pertanto era idonea a suscitare nel Bozzo la preoccupazione di un danno ingiusto idonea a limitare il potere di autodeterminazione dello stesso».
La De Vuono spiega anche che la condotta di Citrigno non è giustificabile neanche «in un contesto di crisi economica aziendale, come evidenziato dal consulente di parte Schiavone, non essendo giustificabile la commissione di reati per risolvere una crisi aziendale dovendo il datore di lavoro a tal fine utilizzare le procedure formali predisposte dalla normativa lavoristica».
Allo stesso tempo però, la sentenza del Tribunale di Cosenza spiega il perché della pena di quattro mesi: «La condotta posta in essere dal Citrigno, pure intesa ed idonea a limitare il potere di autodeterminazione del Bozzo, si inquadrava in ogni caso in un contesto di crisi aziendale e certamente non aveva il fine di porre il Bozzo in una situazione particolare di disagio (…) non può neanche dirsi che il Citrigno abbia posto in essere la condotta in questione nei confronti del Bozzo con la consapevolezza di avere davanti una persona fragile, atteso che, come riferito da tutti i testimoni escussi Alessandro Bozzo sul luogo di lavoro dava l’impressione di una persona forte “con le spalle dritte” che non si faceva intimorire neppure dalle minacce a volte ricevute in relazione all’attività di giornalista espletata».
Durante il processo, il pm Maria Francesca Cerchiara (che per Citrigno aveva chiesto 4 anni di reclusione), invocò la trasmissioni di atti alla Procura perché, dalle testimonianze dei giornalisti, si prefiguravano ipotesi di reato anche ai danni di Pietro Comito, Antonella Garofalo, Antonio Murzio e Francesco Pirillo.
Nessun risarcimento previsto per l’Ordine nazionale dei giornalisti che si era costituito parte civile. La famiglia di Alessandro Bozzo, così come disse già il 14 settembre scorso dopo la lettura della sentenza, ricorrerà in Appello perché non si ritiene soddisfatta dalla condanna emessa.
Francesco Cangemi
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