Per mons. Domenico Pompili è “un nuovo ambiente per soddisfare i bisogni legati alle nuove insicurezze

“Internet: non è la rete la causa della dipendenza”

Mons. Domenico Pompili

ROMA – “Non é internet la causa della dipendenza”: “casomai” la Rete è “un nuovo ambiente facilmente disponibile per trovare soddisfazione immediata ai bisogni legati alle nuove insicurezze”. Lo ha detto mons. Domenico Pompili, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, intervenendo oggi a Roma al Convegno “Giovani e Internet. Aspetti evolutivi e problemi di dipendenza”, promosso dal Ministero della Salute con il Policlinico Agostino Gemelli.
“Nell’era ipermediale, sempre più la tecnologia é ciò in cui l’essere umano ripone la propria fiducia e la propria speranza di realizzazione dei propri desideri più profondi”, ha spiegato il relatore, secondo il quale “oggi viviamo certamente in un’epoca segnata da una sovrabbondanza di stimoli e da una mancanza di criteri di orientamento condivisi”.
Nel mondo digitale, è la tesi di mons. Pompili, “emergono desideri autentici, mascherati da bisogni”, ed il primo dei bisogni che i giovani cercano di soddisfare in Rete è “il bisogno di realtà”. “In un mondo in cui non ci sono divieti e non ci si scontra mai con un limite, in cui il confine tra immagini e realtà diventa sempre più sfumato, in cui la tecnologia sembra poter contenere e realizzare qualunque cosa, ciò che si perde è proprio la realtà”, ha denunciato il relatore, perché “se tutto sembra possibile, allora più niente è reale.
Di fronte al bisogno di realtà, al bisogno di senso e al bisogno di “relazione e affettività”, cioè di fronte “al senso di vulnerabilità personale in una fase critica della costruzione di sé, al timore del rifiuto o anche solo dell’invisibilità, della mancanza di riconoscimento”, i dispositivi tecnologici – ha affermato mons. Pompili, “sembrano la soluzione ideale”, perché da una lato offrono “spazi di incontro facilmente accessibili, dove è possibile non sentirsi mai soli”, dall’altro “offrono comunque un riparo, una mediazione rispetto all’incontro con l’altro, che é sempre suscettibile di disconnessione a nostra discrezione. Il bello della relazione, senza i rischi. Per questo, i giovani sembrano a volte preferire i dispositivi alla reciprocità dell’incontro”.
Nel nuovo contesto ipertecnologico, “gli adolescenti rischiano di crescere con l’aspettativa di una connessione continua incapaci di tollerare il silenzio, la solitudine con se stessi o semplicemente le assenze temporanee di copertura di rete. La loro competenza tecnologica paradossalmente tende a renderli ancora più dipendenti dai dispositivi, quasi risucchiati da essi, generando una serie di nuove insicurezze e di false equivalenze”.
Tra le prime, mons. Pompili ha citato “l’ansia per l’inadeguatezza del proprio profilo; l’incapacità di tollerare il silenzio altrui e la non immediata risposta ai propri messaggi; la tendenza a misurare la propria popolarità in termini di volume e velocità di messaggi e risposte”.
Tra le seconde, il “rischio” è quello di “una nuova condizione esistenziale in cui si è contemporaneamente insieme e da soli, col rischio di non essere più capaci né dell’una né dell’altra cosa e di scambiare le connessioni facili per intimità”. Altro pericolo, per mons. Pompili, è quello di ritenere equivalente la relazione online e quella offline, e di equiparare il trovarsi nello spazio smaterializzato della rete con l’incontrarsi, che invece richiede la compresenza, la presenza piena e corporea dell’altro”.
Se da una lato, infatti, il termine “dispositivo” tende a “suggerire l’idea di protesi atte a far accadere cose, a potenziare l’azione e la relazione umana, in realtà dall’altro sottende una sorta di idolatria della tecnologia, come fosse magicamente e in sé capace di far accadere quello che Ricoeur chiama il miracolo della comunicazione”, che “non può essere un “effetto” dei dispositivi, bensì può avere luogo solo a partire dalla volontà, dall’ascolto, dalla libertà”.
“Le tecnologie sono straordinarie opportunità per coltivare le nostre relazioni, avvicinare i lontani, trovare nuove modalità relazionali che non si lasciano ingabbiare dai limiti di spazio e tempo. Ma l’altro posso incontrarlo in rete solo se l’abbiamo incontrato in presenza”, ha concluso il direttore dell’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali. (Sir)

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