Il diritto all’informazione è dei cittadini ed il giornalista non deve piegarsi ad interessi di sorta

Caso Ruby: hard sono i fatti non le cronache

Franco Siddi, segretario generale Fnsi

ROMA – E’ ben curioso il dibattito che si sta aprendo ancora una volta nei campi della politica, anche laddove ci sarebbe meno da aspettarselo, sulla stampa e i giornalisti per evidenziare l’idea di nuove regole, se non di limitazioni al diritto di cronaca.
Anche un politico accorto ed ex magistrato, come l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, con le parole di oggi alla “telefonata” di Canale 5 rilanciata dalle agenzie, rischia di alimentare un equivoco.
I fatti non li inventano i giornalisti; quando fanno bene il loro lavoro li registrano e ne danno conto. Ciò avviene, in particolare, per l’ipotesi di reato del cosiddetto “caso Ruby”, di cui i media riferiscono da diverso tempo dando conto non di una loro scoperta ma di un procedimento penale che è in corso e che vi è giunto alla prima fase pubblica con la determinazione dei giudici di ricorrere al rito immediato.
L’idea di regole che dovrebbero concordare i direttori (quali?) sulla pubblicazione di atti, altrimenti “l’intervento di una legge che disciplini l’informazione su questa materia, senza privare i cittadini del diritto di sapere” sarebbe importante e necessario, appare sorprendente.
Se c’è un problema di qualità professionale, o di interessi estranei che incidono sui circuiti dell’informazione, occorrono un altro ragionamento e un’altra impostazione. La pubblicabilità degli atti giudiziari certamente non deve corrispondere ad un automatismo finalizzato allo “sputtanamento” delle persone. Il buon giornalismo – e qui certamente c’è da compiere uno sforzo collettivo per alzare l’asticella della responsabilità etica dell’informazione – valuta ciò che è pubblicabile nella sua autonomia e lo fa avendo chiari tre passaggi e un interesse: l’attendibilità, l’interesse sociale, la verifica della notizia e il suo valore nel mercato dell’informazione.
Quanto ai fatti di cui molto si discute in questi giorni, un’altra cosa va detta con chiarezza: anche nella scelta informativa delle testate più schierate politicamente non c’è di norma attività di dileggio nell’esercizio che fa la stampa della propria autonomia. E’ giusto osservare che alcuni particolari (numeri privati, dati sulla salute, conversazioni esclamative estranee) di singole persone possono rientrare nella sfera della riservatezza e debbano essere considerati con il criterio dell’interesse pubblico e, appunto, della responsabilità prima della pubblicazione.
C’è, però, sempre un discrimine tra fatti di rilevanza pubblica che vanno resi noti e il resto. La realtà di questi giorni è che a essere hard non sono cronache ma i fatti. E quanto alle inchieste, a quanti pensano che non si debba pubblicare nulla sui procedimenti in corso (e non è il caso dell’onorevole Violante ma di tentativi di tanti di introdurre leggi bavaglio), va ricordato che non esiste un potere esecutivo che si tutela con il segreto e che il potere giudiziario non può essere esercitato nella segretezza.
La sfida alta per i giornalisti oggi è ricordare che il diritto all’informazione è dei cittadini e che l’attività professionale non deve essere piegata agli interessi dei propri referenti politici e economici o dei propri tifosi.

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