Il "commentaccio" del direttore dell'agenzia di stampa "Europa 1"

Il triste destino del pubblicista

Ennio Crevacuore

Premessa: l’organico dell’agenzia Europa 1 è formato in prevalenza da giornalisti pubblicisti, dai quali ricevo giustificate rimostranze, e per i quali – consentitemi – desidero spendere questo ‘commentaccio’.

Concesso che nei disegni celesti non siano escluse alcune note fuori dal rigo, uno di questi disaccordi è certamente rappresentato dalla figura del Pubblicista. Trattasi questi di esemplare ‘Grafòde vulgaris’ apparso sulla terra agli albori dell’impero romano e classificatosi poi nella sottospecie degli ‘Amanuensis ad unguem’; oggi verosimilmente accostatosi alla grande famiglia dei ‘Cronistoidi celenterati’.In realtà, questo Pària del pc, questo pendolare della carta stampata, questo funambolo del telefonino, un cervello lo possiede: tanto ché dal suo intelletto si è potuto riprodurre nei secoli quel capolavoro della Natura che va sotto il comune denominatore di ‘Giornalista-Professionista’, e col quale oggi il Pubblicista è costretto a convivere ‘more uxorio’ nel talamo dello stesso Albo.

Ma, come da un po’ di tempo a questa parte, la donna ha preso coscienza del proprio corpo – inalberando, ohibò! quello slogan che l’ha resa arbitra di gestirsi un attributo variamente rappresentato da pittori, medici e poeti di tutti i tempi – così pure il giornalista-pubblicista inizia a guardarsi intorno e a chiedersi se non sia giunta ormai l’ora, anche per lui, di gestirsi in proprio un patrimonio che, dopotutto, è comune a tutti gli uomini: l’intelligenza. Infatti, come homo sapiens, come essere coitante e cogitante, a costui è riservato – con tetragona ostinazione- un trattamento più consono ad un ospite del Cottolengo (senza offesa per questo benemerito ente) che non ad un iscritto all’albo professionale. Soprusi, prevaricazioni, abusi fiscali e burocratici, interdizione assoluta a manifestazioni altrimenti riservate, lavoro nero: tutti elementi tenuti in serbo per il Pubblicista, mentre ai cugini vanno meriti, tesserini particolari, contrassegni, ingressi, zuccherini, pacche confidenziali ed altre piacevolezze del genere. Taciamo poi, per misericordia, della situazione previdenziale e mutualistica: sarebbe un elenco troppo lungo di rimorsi a carico di chi ha inteso partorire i due elenchi! E invito chiunque a confutare questa triste realtà; tanto veritiera che un collega – professionista – n’ebbe a scrivere un libro che recava come titolo emblematico: “Il disordine nell’Ordine dei Giornalisti”.

Ora, volendo escludere a priori la totale stupidità di chi legge i lanci di Europa 1, andrei avanti affermando che il Pubblicista è anche contrabbandato come il parente povero o come il fratellastro di una ‘illustre casata’; è bistrattato al punto che persino quando sogna, deve accontentasi d’immagini in bianco e nero, e per di più di seconda visione. Pellegrino – un po’ per vocazione e un po’ per non morir – di mille redazioni, arrischia arditi voli pindarici sulla vulcanologia, sulla silicosi dei coleotteri svizzeri o sulla problematica esistenziale dei gatti in trasferta. Sue sono le inchieste – di solito mai o mal retribuite – circa l’annoso problema idrico in Papuasia, sugli avvistamenti UFO in Maremma, o sull’appocastasi di Tumbuctù.

Sue sono le enfatiche corrispondenze tendenti a sensibilizzare l’opinione pubblica circa le rivendicazioni salariali dei Santoni di Benares; e suoi sono anche i misurati concetti sulla criminologia infantile partendo da un presupposto uterino. Il Pubblicista è considerato infatti un essere immateriale che parla con le nuvole: scrive per se stesso e per la nonna malata. L’evento più eclatante della sua esistenza non si spinge al di là del morbillo del figlio. Salvo rare eccezioni, virtualmente gli è preclusa la ‘nera’; per lui gli spettacoli e l’attualità sono tabù, e “certo” sport è addirittura uno spettacolo soffuso di sofisticate essenze e riservato ad una casta di sottili distillatori di angosce calcistiche. Sopravvive quindi, il pubblicista, con illusorie visioni di periferiche corrispondenze, ma, soprattutto sogna. Sogna, il tapino, che al termine del suo lungo discorso terreno, gli si risparmi, almeno sull’epitaffio, quel ‘Pubblicista’ che suonerebbe come uno sberleffo di fine corsa.

Questa nota è chiaramente indirizzata ai ‘non addetti ai lavori’, per la maggior parte dei quali un Pubblicista altri non è se non un acquisitore di spazi pubblicitari (anche qui senza offesa per quest’altra benemerita categoria, vedovati della quale neppure i Professionisti potrebbero sopravvivere). E non sarò certo io a prodigarmi per far luce al volgo e all’inclita circa l’etimologia di quell’ormai logoro e desueto termine discriminatorio. Altri ci si sono provati con escursioni semantiche; ma dal cimento dialettico il Pubblicista ne è uscito fuori piuttosto malconcio: chi aveva interpretato il termine come un vocabolo medico stante a significare un’infiammazione del pube, e chi – più modestamente – l’aveva inteso come un attacchino pubblico. Termine o ‘marchio’ di paragone inutile comunque: che, se da una parte mortifica e umilia, dall’altra serve solo a mantenere le distanze in famiglia e ad alimentare l’annosa faida tra Montecchi e Capuleti del giornalismo italiano.

Una rissa che si esaurirà solo quando al Pubblicista sarà finalmente concesso – tramite vie incruente, legali e democratiche – di farsi chiamare semplicemente “giornalista”. (Europa 1)

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