Il limite del diritto di cronaca

di Rachele Catalano

L’ordine di comparsa è sempre lo stesso: una serie apparentemente confusa di luoghi, persone, oggetti e foto che ritraggono la vittima scivolano sullo schermo legate dal sottile filo di malinconia tessuto sulle candide note di Yann Tiersen, il quale componendo la sua celebre “Comptine d’un autre été”, ormai familiare alle nostre orecchie, non avrebbe mai pensato di dare un contributo ad un business così macabro e grottesco. Poiché è da definirsi per lo meno grottesca questa esibizione di atrocità quando affiancata alle più ridicole notizie di cronaca rosa che ci vengono propinate quotidianamente e di cui le viscere intellettuali di molti spettatori si nutrono, se di intelletto si puo ancora parlare. Poi d’un tratto il programma cambia registro, dando ancora una volta spazio ai volti dei carnefici mentre in sottofondo ascoltiamo l’eco di una sinfonia, degna colonna sonora del miglior film di Dario Argento. In principio fuit Alfredino Rampi e la televisione uscì da un pozzo, con una diretta  di 18 ore non stop a reti RAI unificate: un caso di risonanza sconvolgente all’epoca, non solo per la svolta tragica degli eventi, ma poiché per la prima volta nella storia del giornalismo italiano gli spettatori erano entrati inconsapevolmente in scena in un Italia sulla soglia degli anni ‘80, quando ancora nessuno sisarebbe mai sognato di parlare di “mutande abbassate” alla notizia di uno stupro e gli ergastolani rievocavano il diritto di essere dimenticati almeno da giornalisti e lettori, quando il limite al diritto di cronaca era il buongusto e la pietas. Perché ai giorni nostri, nell’Italia del XXI secolo, sussiste la situazione contraria? Quando il cappello grigio e logoro di Michele Misseri e la camera da letto di casa Cogne sono diventati nostro pane quotidiano? Non vi è dubbio su come il successo mediatico di tali delitti possa influire positivamente sul guadagno di giornalisti, criminologi, psicologi, speakers, reti televisive, ma noi spettatori come e perché permettiamo che la televisione ci lobotomizzi? Prigionieri di un complesso macchinario che strumentalizza la cattiva informazione, veniamo resi incapaci di scindere la finzione di un film dalla realtà di fatti disumani e macabri, partecipiamo passivamente alla messa in scena di eventi reali, compatiamo le vittime esorcizzando e allo stesso tempo allontanando da noi la morte. Le notizie ci mettono in guardia dai carnefici, e tuttavia la parte a noi piu sconosciuta del nostro inconscio tende a identificarci con loro e, spesso, a comprenderli. D’altronde non si potrebbe fare diversamente che definire la televisione, come saggiamente ha detto Pasolini, il moderno fascismo, poiché non solo strumento di comunicazione, ma anche strumento di elaborazione del contenuto dove si sviluppa una mentalità che altrimenti non saprebbe dove collocarsi e un modello, quello del consumo, che produce uomini costretti a ritirare il loro prêt-à-porter di ideali standard, un surrogato di accettazione e sottomissione.

“Perché la televisione è un medium di massa, e come tale non può che mercificarci e alienarci. […] (io) non posso dire tutto quello che voglio. […] oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose. […]Comunque, a parte questo, è proprio il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video, ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.” (Pierpaolo Pasolini)


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